"Delirio": un eroe sboccato e spernacchiante. Ma fiero d’esserlo

Giulio Gasperini

ROMA – Gli eroi, si sa, ormai da molto tempo latitano. Non ci son più gli Achilli e gli Ettori di una volta, quegli eroi sempre così fieri, sempre così perfetti, sempre così nel giusto anche quando nella colpa; sempre così alteri e sicuri, senza mai un’incrinatura nei loro palmi sinistri. Oramai l’eroe s’è convertito in un inetto, e le rare volte che compare, lo fa in maniera grottesca, strappandoci risate amare e ghigni increduli, lasciandoci l’amarezza dell’ennesimo mito violato. L’inettitudine è caratteristica peculiare, quasi definitoria, del ‘900: da Mattia Pascal per arrivare agli imbarazzanti eroi del post-moderno, sempre alla ricerca d’una redenzione impossibile perché inesistente. Ma in questo romanzo, dal titolo compromettente (“Delirio”, Mondadori, 1977), la grande scrittrice umbra, nata fra angeli e demoni, Barbara Alberti, ci costringe oltre; ci dirotta altrove, ben più in là: ci spinge sui sedili con un’accelerazione alla demenza, all’iperbole, alla provocazione palese e disarmante, ma mai pura e semplice volgarità.
L’eroe dell’Alberti è un omuncolo spernacchiante e triviale, sboccato e incontinente (non soltanto verbalmente). È un vecchio che aggredisce il buon senso e lo vìola, lo scardina senza preoccuparsi delle conseguenze, infischiandosene delle leggi morali, del perbenismo imperante, di quella società che confina e degrada la vecchiezza a un soggiorno in una casa di riposo, quanto più lontano possibile da casa. Un esilio imposto che sa di violenza, ben più grave di quella sessuale, che poi violenza non è: soltanto atto consenziente (anche se fuori luogo).
Mai titolo fu, forse, più azzeccato di questo; più profetico. La Alberti ci soffoca, in un vero e proprio delirio, in una rapsodica girandola di pensieri e parole: come una marea che incalza e si ritira a intervalli regolari, fino al momento in cui tutto è sommerso, e condannato all’apnea. Ci troviamo boccheggianti, sopraffatti dall’irruenza e dalla virulenza verbale di queste pagine, piene di parole da oscurare con gli asterischi, ma che paion sempre così perfette, così indicate, non appena se ne capisce la funzione.
Il nostro mondo attuale, quello di feisbuc e di altri luoghi di socializzazione (che han tristemente sostituito le piazze e i bar), è saturo di trivialità, soprattutto verbali, da non farci più caso, da essere state assunte finanche dal vocabolario come puri e semplici significanti; spesso, addirittura, come intercalari. Ma nel 1977, quando uscì questo romanzo, le “freg**” e i “caz**” eran parole bandite, indicate come profane del buon costume, della decenza. E l’Alberti non poté certo resistere: usò quelle parole come mattoncini, edificando la sua turris eburnea; e, con merito, scandalizzò.

Gianna Manzini "Lettera all’Editore"

Marianna Abbate
ROMA Come nasce un romanzo? Si scrive da solo sulle pagine bianche? Le idee si sviluppano spontaneamente, seguendo il naturale scorrere del tempo, o sono frutto di una complessa, scientifica operazione? Ebbene entrambe le ipotesi hanno un po’ di ragione.
Con la Lettera all’Editore di Gianna Manzini, pubblicata per la prima volta da Sansoni nel 1945, ci troviamo in una posizione privilegiata: possiamo spiare l’autore nel momento più intimo della creazione. Possiamo seguire i suoi ragionamenti, le sue disquisizioni e conoscere le richieste dell’editore stesso. Scopriamo però che a volte la situazione può sfuggire di mano.
A volte i personaggi decidono per se stessi e assumono un vita propria. Come Pinocchio scappano dalla retta via che gli indica Geppetto, e compaiono come sconosciuti o vecchi amici davanti agli occhi dell’autore, chiedendo soltanto di raccontare la loro storia.
Gianna Manzini ci invita con grazia nel suo mondo, ci mostra i suoi segreti e il travaglio della produzione letteraria. Possiamo conoscere i suoi ragionamenti e i mille problemi che sorgono durante la stesura di un romanzo. L’autrice trova un percorso innovativo, ricavandosi un posto nella storia della letteratura italiana grazie alla sua particolare originalità. Gli intellettuali a lei contemporanei, suoi amici dai tempi di Solaria, prevedevano che avrebbe avuto un’importante carriera; tuttavia, seppure i suoi libri ottennero un discreto successo, per il loro lessico complesso, lo stile raffinato della Manzini è rimasto a lungo sconosciuto ai più. Un peccato, dal momento che si tratta di una letteratura estetica e piacevole, così adatta alle fredde serate invernali.

Stagione di Libri in Fiera: a Milano il Salone del Libro Usato

MILANO – Si è aperta oggi la sesta edizione del Salone del Libro Usato (fino a mercoledì), l’universo del libro e delle curiosità editoriali che fa gola ai molti rimasti in città nonostante le festività di Sant’Ambrogio. Tra i primi visitatori alla ricerca di rarità, un bibliofilo d’eccezione: Umberto Eco. Il filosofo e scrittore ha visitato a sorpresa la manifestazione, un padrino simbolico il cui amore per la vita sconosciuta dei libri ha dato origine a romanzi di fama internazionale.

Passeggiando tra le centinaia di bancarelle presenti quest’anno (oltre 400, un centinaio di banchi in più dell’anno scorso) in Fieramilanocity si ha la sensazione di entrare all’interno di un’enciclopedia universale in formato tridimensionale, dove poter toccare con mano edizioni introvabili, volumi rilegati artigianalmente e quadernetti autografi, oppure avventurarsi tra gli scaffali dei grandi classici della letteratura e viaggiare nel tempo e nello spazio passando attraverso trattati scientifici del 1500, libri illustrati d’epoca liberty, manuali erotici giapponesi, fumetti dei primi del Novecento e romanzi di fantascienza degli anni Settanta.

Ma non basta andare alla ricerca dei propri libri o autori preferiti per trovare ciò che si desidera, è necessario perdersi tra le mille opere in esposizione e abbandonarsi al piacere e allo stupore della scoperta. Un’edizione anche dal sapore internazionale con espositori che da tutta Europa arrivano a Milano con opere raffinate e ricercate come la galleria antiquaria Hans Lindner di Mainburg, Germania, che propone “Les Métamorphoses du vide” di Henry Maurice, un viaggio illustrato nella mente e nell’inconscio dell’autore in edizione originale e venduta a 1.750 euro. Oppure la serie completa di “Gesù Cristo e i dodici appostoli” del 1621 di Philippe Thomassin, primo maestro di Jacques Callot, che partendo dai disegni di Raffaello Sanzio realizzò 13 incisioni destinate alle chiese di campagna della Lorraine, conservate in ottimo stato dall’antiquario parigino Christian Collin, e vendute a 9.000 euro. La febbre dei regali di Natale contagia tutti e il Salone del Libro Usato si presenta come il luogo ideale per esaudire ogni desiderio, dalle favole pop-up degli anni Quaranta, da Alì Babà ad Alice nel paese delle meraviglie, costo dai 250 ai 450 euro, esposte da Stefen Libri di Milano, ai vinili vintage di Lorenzo Galbiati, Vinile Collezione di Lecco, lasciando spazio anche per qualche fantasia low cost, come la vasta selezione di libri proposta dal Libraccio, a partire da 2 euro.

Tra le esclusive di quest’anno una collezione di contratti di compravendita inglesi del Settecento in pergamena animale, le cosiddette Indenture, chiamate così per il particolare taglio frastagliato su uno dei lati del foglio, prova schiacciante dell’originalità del documento che veniva infatti diviso in due e ciascuna copia tenuta da entrambi i contraenti, le due parti per essere considerate valide dovevano combaciare tra loro. Documenti originali esposti da Meraviglia Libri di Milano.
Tra i visitatori si scorgono collezionisti, studenti, cultori del libro e celebrità della televisione come Bruno Vespa, insieme tra gli stand della fiera a caccia di fotografie vintage, stampe, libri illustrati, riviste d’epoca e cartoline pubblicitarie dei primi del Novecento: il Salone del Libro Usato si apre con un sorprendente successo di pubblico già dal primo giorno

Settanta volte sette onde

Giulio Gasperini
ROMA –
Come si declina l’assenza della passione d’amore? Come si concreta un’ars amandi che fu? Come si oggettiva un antico possesso erotico? Come un letto che “campa di ruggine”; come un’assenza di stagioni; come luce disabitata negli occhi d’un’innamorata; “una penna di rapace / che ora nell’agenda divide il quattro / dal cinque luglio”; come foglie che si ammucchiano “nel cavo della sera”.

Potente è la poesia che Giuliana Rigamonti squaderna in questa silloge: “La settima onda” (ES Edizioni, 2003). Potente ma lieve, pura ma furiosa come un’improvvisa tempesta di neve: furente di tutto quell’erotismo che così prodigiosamente le sue sillabe, le sue parole sanno esprimere, sanno declinare.
Perché l’assenza di passione implica che una passione anteriore sia esistita, una passione che deflagrò mentre “l’auto corre fra campi di lavanda” della Camargue francese, o mentre sorprendiamo noi stessi nel ricordo di quando si contavano “i rimbalzi di ciottoli sull’acqua”. È una passione che si allea la natura intera (“Gonfie, le vigne a mezza costa / srotolano frenesie di vendemmie”; “Ti traduco il bosco che precipita / nel lago”); è una passione che si esagerava eterna, nelle solite promesse degli amanti (“Moriremo così, dici, / mano nella mano”); una passione che era incomunicabilità o forse solo gelosa brama di possesso (“Nessuno che colga / i segni incisi sulla pietra”).
Non è facile poetare l’erotismo: il rischio di diventar volgari, grossolani è facile e concreto. E una poesia sguaiata non è certo una poesia erotica. Sarà per questo che le donne son più abili, a scriverla. Rimane comunque la soddisfazione di leggere questo rosario di poesie, questi germogli che la Rigamonti – una delle migliori voci poetiche contemporanee e, per questo, ampiamente sconosciuta – inanella armoniosamente, che fa gemmare amabilmente. È come seguire, in una contabilità evangelica, settanta volte sette onde di erotismo, sbocciato nel quotidiano. Perché l’eros è cosa seria; quasi santa. Ma anche così normale; quasi casalinga.

Un vecchio letale veleno

Giulio Gasperini
ROMA –
Il veleno della naja tripudians paralizza; prima ancora dà un senso d’ubriachezza, strano a provarsi. Poi la morte fulmina un cuore che continua, pur in assenza di respiro, a battere. Annie Vivanti (Mondadori, 1979) ci incanta, con la figura di questo serpente: forma sinuosa e lasciva, ipnotica e voluttuosa. Ce ne fa quasi innamorare.

Ma i serpenti assumono forme diverse, si declinano in molteplici essenze: serpenti posson esserlo anche donne e uomini morfinomani, che trascinano nella loro drogata follia persino un gatto, incolpevole vittima sacrificale dell’insofferenza di vivere, della fragilità caratteriale, dell’inabilità a esistere.
Serpente, nella fiction narrativa, può diventarlo il mondo inglese, quello delle ville di campagna e dei divertimenti a cavallo, il quale ben presto, però, si scontorna e si trasfigura nel mondo intero, globale, e soprattutto moderno, attuale. Un mondo, ovvero, che ha perso l’affascinante naturalezza e compostezza di Jane Austen, la sua divertita ironia, e s’è tramutato in un luogo dove le case rapiscono e tengono in ostaggio, e alla fine spariscono e non si ritrovan più, perse in un dedalo cittadino che non ha più ordine, né futuro o speranza. È diventato, il mondo, un luogo dove l’innocenza non trionfa, dove il candore è stupidità, dove, loro malgrado, i valori son calpestati e disprezzati, ancor più sacrificati alla violenza, forse un po’ iperbolica, ma pura realtà, così dura da masticare.
Naja tripudians ha molti anni, oramai più d’ottanta: li dimostra tutti, per certi aspetti. Per altri no: rimane agevole, leggero, scattante e nervoso; proprio come un serpente che si prepara all’attacco, all’affondo velenoso. E letale.