In viaggio con… Alessandro Aresu

ROMA – Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Alessandro Aresu con il suo successo “Generazione Bim Bum Bam”

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Alessandro Aresu su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

 

Alessandro Aresu

Generazione Bim Bum Bam

Perché gli italiani passano il tempo a darsi degli imbecilli a vicenda? Per via di quello che è successo negli anni Ottanta.”
Alessandro Aresu è nato nel 1983, è cresciuto negli anni in cui la televisione commerciale è diventata un fenomeno di massa e i cartoni animati uno dei miti fondativi dei ragazzi di allora, oggi giovani adulti in una società gerontocratica che non solo offre poche possibilità di esprimere i loro talenti ma che, soprattutto, non riconosce o sottovaluta la “generazione Bim Bum Bam”. Nati tra il 1975 e il 1990, i suoi rappresentanti sono cresciuti con Uan e BatRoberto, mentre la vecchia Italia si dibatteva tra debito pubblico e stragi di Stato e la Cina cominciava il suo travolgente processo di trasformazione.
Per raccontare la storia di questa generazione ci sono due alternative: “Una è giocare e fare sul serio allo stesso tempo, e l’altra è pensare di essere un popolo di imbecilli e darci degli imbecilli a vicenda. La prima è divertente, la seconda inutile. Questo libro sceglie la prima strada per sbarazzarsi della seconda”. Domanda precisa: Cosa è successo nel 1981? Risposta precisa: Provano ad ammazzare Reagan ma anche (non secondario) Cristina D’avena e Alessandra Valeri Manera si incontrano a Bologna e nasce Bim Bum Bum.
Domanda precisa: Quanto duravano i discorsi di Aldo Moro?
Risposta precisa: Infinite sigle dei cartoni animati. Domanda precisa: Che cos’è la cei?
Risposta precisa: La Certezza di Essere Incapaci di risolvere qualunque problema.
Domanda precisa: Quanto duravano i discorsi di Deng Xiaoping nel 1992? Risposta precisa: Due sigle dei cartoni animati. Dopo, la gente doveva tornare al lavoro.
Domanda precisa: Se Bim Bum Bam è finito come facciamo a riprendere il suo spirito?
Risposta precisa: Internet.
Giocando attraverso 131 “domande e risposte precise “, Alessandro Aresu ci svela cos’è stato sul serio il “trentennio perduto”, dal 1981 a oggi, attraverso un racconto ricco di ironia pungente e leggerezza, ma anche capace di intuire acutamente le ragioni della nostra decadenza. Passando per Cristina D’Avena, Travaglio, la Prima Repubblica, la Cina, Lady Oscar, Berlusconi, Prodi, Max Pezzali, Scalfari, Mattei, Dagospia e tanti altri, scopriremo, giovani e meno giovani, che “molti dei nostri problemi derivano dal mancato riconoscimento dell’importanza della Generazione Bim Bum Bam. Immersi in questa sottovalutazione, dimentichiamo i sogni e, messi davanti alla realtà, non sappiamo che fare”.
Un libro che costruisce in maniera sorprendente l’immaginario, lo stile e l’universo culturale di una generazione mal rappresentata dalle analisi del censis: circa dieci milioni di giovani italiani, superficialmente bollati come “bamboccioni”, che rappresentano invece una collettività più viva che mai, oggi cruciale per il futuro del nostro paese. (Mondadori, 2012, € 17,00)

ChronicaLibri intervista Virginia Less, autrice di “Mal di Mare”

Alessia Sità
ROMA Qualche mese ho avuto il piacere di leggere e recensire “Mal di Mare“, il brillante romanzo di Virginia Savona Less, edito da Autodafé Edizioni. Sono stata decisamente conquistata dal simpatico personaggio del Capitano Osvaldi e dalle sue intriganti indagini, narrate in ben sette episodi .

ChronicaLibri ha intervistato l’autrice.

Già dal titolo del suo libro, “Mal di mare”, si intuisce il suo legame con l’acqua, infatti ho letto che è una velista. Per lei il mare rappresenta una fonte di ispirazione?
Ho trascorso le estati dell’infanzia e dell’adolescenza a Sperlonga, sulla costa laziale. Il rapporto con l’acqua, sopra e sotto, non poteva che riuscire felice. Alla vela mi sono accostata giovanissima grazie al mio esperto “capitano”(poi marito). Mi viene dunque  spontaneo parlare del mare  e trovo emblematica l’ambientazione. Per attraversarlo – come nel nostro vivere – occorre tracciare e seguire la rotta; farlo a vela richiede pazienza, intuito e raziocinio. Le doti che ho attribuito a Osvaldi, il quale deve muoversi in acque melmose verso mete elusive.
Come nasce il personaggio del Capitano Osvaldi?
Nei primi lavori ho evitato l’investigatore in divisa, troppo gettonato. Ma avevo conosciuto davvero un grosso carabiniere, ottimo cuoco e cattivo nuotatore; la sua ingombrante figura ha finito con il presentarsi  quasi da sola nei miei testi.
La riluttanza per il mare che lei ha attribuito al Capitano nasconde un significato più profondo oppure è stata semplicemente una scelta voluta per rendere un po’ comico il personaggio?
Il timore dell’acqua, insieme alla dieta perenne e al mantra su Ramsete, ha lo scopo di rendere simpatico il personaggio. Altrimenti “pesante”: ligio al dovere, pessimista, seguace di un’etica  rigorosa. Ma il suo  mal di mare simboleggia anche il malessere profondo delle persone per bene ( e che vogliono restare tali ), costrette a operare  in una società iniqua.
Dai suoi sette racconti emerge un quadro della società attuale alquanto dettagliato e non proprio roseo. Questo suo modo di scrivere è solo uno sfogo narrativo di denuncia del malcostume attuale, oppure è uno strumento per raccontare la società nel tentativo di migliorarla?
Il taglio socio-politico nasce dalla  formazione di base. Rappresenta poi il tentativo di tenere a bada, mediante un approccio  ironico, le mie frustrazioni di  cittadina delusa nelle sue esigenze di reale democrazia. La denuncia del malcostume dominante credo costituisca un dovere dello scrittore. L’idea di migliorare la società in cui vive… : un’illusione da conservare.
Secondo lei ‘nella nostra Maraglia’ il rigore morale è ormai un ricordo o intravede un barlume di speranza?
Maraglia è una sineddoche delle condotte immorali che caratterizzano, e non solo nel Mezzogiorno, la maggioranza dei governanti e dei governati. Meritevoli, questi ultimi, dei propri guai: per via della costante piccola “mafiosità “con la quale accostano la cosa pubblica. Tuttavia nel corso della storia gruppi di potere irrigiditi a difesa  sono stati più volte travolti quasi all’improvviso. Credo che i cittadini onesti, finora trattati da c…….i, non sopportino più la sfacciata  tracotanza dominante e siano in grado di prendere l’iniziativa. Se lo vorranno davvero.
Attualmente sta lavorando a un nuovo progetto?
Ho scritto un romanzo che riprende l’ambientazione e i personaggi principali dei racconti. Spero di pubblicarlo l’anno prossimo.
Tre parole per definire “Mal di mare”
Giallo, etica, ironia.

In viaggio con… la Sora Cesira

ROMA – Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite La Sora Cesira con il suo successo “Nel bene, nel male e nel così così”

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Sora Cesira – Nel bene, nel male e nel così così

Mi chiamo Sora Cesira, ho l’età di Marilyn Manson al quadrato, diviso gli anni di Shrek meno il metabolismo basale di Cenerentola quando ha il ciclo. Ho fatto la scuola dell’obbligo e vi assicuro che nel mio caso la definizione è oltremodo azzeccata. Ho intrapreso numerose carriere scolastiche e non, e di tutte porto ancora i segni tangibili. I miei hobby sono: il collezionismo di eurini, la cacca e la pace nel mondo. L’ultimo film che ho visto aveva l’audio con i marocchini che ridevano e tossivano. Non so mai dove mettere le virgole. Penso che l’Italia sia un paese molto carino e senza speranza. Sono una persona buona. Credo.”
Se la Sora Cesira esista poi davvero, nessuno lo sa e forse poco importa. Quello che conta è che, fin dai tempi del suo grande successo, The Arcore’s Nights, quando lei guarda all’Italia, alla politica e alle nostre manie coglie sempre nel segno. Ci fa divertire. E ridere, molto spesso di noi stessi. Nel bene, nel male e nel così così riunisce tutto il meglio del Cesira-pensiero. E quindi tutto il meglio di noi italiani. Che facciamo la spesa al discount, tentiamo di dimagrire facendo spinning e compriamo solo gialli svedesi che poi usiamo come fermaporte.

(Biblioteca Umoristica Mondadori, 2011, €16.50)

In viaggio con… Antonio Menna e uno Steve Jobs napoletano

ROMA – Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Antonio Menna con il suo successo “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”

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Intervista ad Antonio Menna su CHRONICAtube

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Antonio Menna Se Steve Jobs fosse nato a Napoli

Due ragazzi chiusi in un garage si inventano il computer del futuro: leggero, veloce, dal design innovativo, che non si blocca e non prende virus. Se fossimo in America, la storia avrebbe un lieto fine, fatto di soldi, gloria e successo.È andata così a Steve Jobs e alla sua Apple. Ma siamo a Napoli, dove il genio non basta a cambiare un destino. Lo sanno bene Stefano Lavori e Stefano Vozzini, due ragazzi dei Quartieri Spagnoli, che per avviare l’attività e vendere il loro rivoluzionario computer si scontrano con il peggio del Belpaese: in Italia i prestiti si fanno solo a chi ha già i soldi, le regole sono scritte per gli scemi perché i furbi se le scrivono da soli, i bandi li vincono gli amici di amici, la burocrazia chiude un occhio su chi è ben ammanigliato, ma li tiene spalancati sui poveracci. E ammettendo che i due guaglioni siano abbastanza affamati e folli da non arrendersi, quando ci si mette di mezzo la camorra il loro sogno va letteralmente in fumo.O, almeno, così sembra. Questo racconto, tanto amaro quanto esilarante, è nato come post sul blog dell’autore e in poche ore ha fatto il giro del mondo prima di diventare un libro.Antonio Menna spiega in modo divertito e insieme spietato la condizione di un Paese che sguazza nei suoi mali e incoraggia le buone idee ad andarsene. E ci svela perché da noi la Apple non sarebbe mai nata. E forse Steve Jobs sarebbe finito a vendere le pezze al mercato. (Sperling & Kupfer Editori, 2012, €10.50)

 

“In viaggio con…” Rosanna Sferrazza

ROMA – Bentrovati al secondo appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Rosanna Sferrazza con il suo successo “Ma Dio è su facebook?”

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Intervista a Rosanna Sferrazza su CHRONICAtube

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Rosanna Sferrazza- Ma Dio è su facebook?

E tu cosa fai se la ex di tuo marito scrive sulla bacheca di tuo marito? Un libro sul Dio pagano del momento che conta milioni di fedeli in tutto il mondo: Facebook. Sulla bacheca del famoso social network si alternano commenti surreali, satirici ed eventi paradossali. Un coro di voci umane che fanno a gara per rispondere all’eterna domanda: a cosa stai pensando? Ne viene fuori un affresco ironico della nostra contemporaneità alla disperata ricerca di un senso. C’è Margherita Hack che parla di stelle e gatti, di affari e politica, Beethoven che oggi non riesce a vendere la sua musica e allora chiede l’amicizia e qualche consiglio a Gigi D’Alessio. Gente comune incollata al computer con la speranza che qualcuno a notte fonda si aggiunga alla lista degli amici. Rosanna Sferrazza entra come un virus dentro Facebook, infettandolo di esilarante surrealismo. Come la Hack dice nel libro: “L’importante nella vita non è avere le risposte, ma farsi le giuste domande. Dio esiste? è una domanda sbagliata, quella giusta è: Ma Dio è su Facebook?”. Con la prefazione della Sora Cesira. (Promo Music, 2012, 12.00 € )

Il mondo di “Diecipercento” raccontato da Antonella Di Martino

Silvia Notarangelo
ROMA – Lo confesso. Quando ho iniziato a leggere “Diecipercento e la Gran Signora dei tonti” (Autodafé) ero piuttosto scettica. Forse, senza volerlo, quel titolo apparentemente incomprensibile mi stava influenzando. Sono bastate poche pagine, però, per ricredermi. La storia e la scrittura di Antonella Di Martino sono riuscite a conquistarmi. Il viaggio del defunto Diecipercento nel suo passato, tra le pieghe di una vita non proprio cristallina, si rivela coinvolgente e non privo di risvolti imprevisti. ChronicaLibri ha intervistato l’autrice.

Lavora da anni nell’editoria come autrice di racconti e fiabe per bambini. Come è nato il desiderio di cimentarsi con un romanzo per adulti?
Il desiderio è nato perché mi piace, mi è sempre piaciuto sperimentare strade nuove. Inoltre, scrivere per i bambini comporta delle responsabilità, aggravate dai pregiudizi diffusi che trasformano i bambini in angioletti di cristallo, da salvaguardare con estrema attenzione. Questo problema non esiste con la narrativa destinata agli adulti: posso traumatizzarli quanto mi pare (sorride ndr).

Il protagonista Diecipercento realizza, forse, un sogno di tanti: osservare e trovare un perché a quei tanti, troppi interrogativi che durante la vita si sono lasciati in sospeso. “Dopo la morte aveva scoperto che esistevano altri modi di vivere, probabilmente più piacevoli”. I rimpianti possono davvero essere un peso insopportabile?
Scoprire di aver sprecato l’intera vita sarebbe davvero insopportabile, se fosse possibile. Per fortuna, è molto difficile raggiungere questa certezza nella vita reale. So che molte persone sono comunque tormentate dai rimpianti, ma non credo che sia davvero possibile sapere come sarebbe stato se… Il caso di Diecipercento è particolare: la sua fede nel decalogo era davvero irremovibile. Non credeva di avere scelta, perché il suo mondo era molto semplice e, al tempo stesso, molto crudele.

I valori di Diecipercento prendono, infatti, la forma di un “decalogo” in cui soldi, menzogne, divertimento rappresentano un vero e proprio modus vivendi. Non si può dire che manchino richiami all’attualità e alla condotta di una certa classe politica…
No, purtroppo non si può dire. Dirò di peggio: questi “valori” comprendono l’intera classe politica e oltre, sono apprezzati e messi in pratica ovunque. Il nostro paese ne è impregnato fino al midollo. Non voglio dire che “siamo tutti uguali”, anzi detesto queste generalizzazioni; ma anche chi non condivide per niente il decalogo di Diecipercento deve confrontarsi con questa deriva antropologica.

Margherita, la nipote del protagonista, sembra fatta di un’altra stoffa. Il suo senso di giustizia la spinge a ritornare sui luoghi di un passato doloroso, pur di scoprire la verità sulla morte dello zio. Ho l’impressione, però, che la donna compia questo viaggio anche per se stessa, per mettere un punto e andare avanti con la sua vita. È d’accordo?
Sì! Anche Margherita, soprannominata la Gran Signora dei tonti, è in viaggio per comprendere il suo passato, tracciare la sua linea di morte e andare avanti, libera dai fantasmi. Anche i fantasmi, come i valori di Diecipercento, sono molto diffusi. Ci avvelenano la vita: ognuno di noi dovrebbe guardarli in faccia, salutarli con affetto e consentire loro di morire davvero.

Attualmente sta lavorando a qualche progetto particolare di cui vuole parlarci?
Sto revisionando un nuovo romanzo, dedicato agli adulti. Ci saranno risvolti sociali, psicologici, sentimentali. Ci sarà anche un personaggio che aveva conosciuto Diecipercento. E presto sarà pubblicato un mio racconto, di un genere che non avevo mai provato, in una collana di ebook; ma non posso dire di più (sorride ndr).

Un’ultima curiosità. Nella sua biografia scrive che la Valle d’Aosta, dove è nata, è “un’isola felice ma non per me”. Può spiegarci perché?
Me ne sono andata dalla Valle d’Aosta perché detestavo viverci. L’ambiente è troppo freddo, troppo piccolo, troppo soffocante, in tutti i sensi. Allora, quando ci vivevo io, circolavano soldi e privilegi in abbondanza, ma questi vantaggi si pagavano a caro prezzo.
Per rendere l’idea sul tipo di mentalità che odiavo, vi racconto un episodio successo più di venti anni fa. La figlia di una mia amica, che allora aveva sei anni, era stata violentata. Era successo ad Aosta, mentre la bambina giocava sotto casa sua. Il violentatore si era presentato a volto scoperto, fingendo di dover consegnare un pacco. La famiglia aveva denunciato il crimine, insieme ad altre che avevano vissuto la stessa tragedia. Aosta non è mai stata una metropoli: oggi conta circa 35.000 abitanti, quindi non sembrava un caso troppo difficile da risolvere. Ma il colpevole non è mai stato arrestato. Allora circolava la voce, molto insistente, che le autorità conoscessero e proteggessero il responsabile. Non ho mai saputo se questa voce fosse fondata, ma so che molti ci credevano e lo consideravano un fatto normale. Niente di cui scandalizzarsi.
Ormai sono passati quasi vent’anni dal trasloco: il risentimento nei confronti della “Petite Patrie” è quasi svanito, ma resto molto soddisfatta della mia scelta.

ChronicaLibri intervista Emanuele Ponturo, autore de “L’odio. Una storia d’amore”

Giulia Siena
ROMA
– Sguardo deciso e risposta diretta. Questo è Emanuele Ponturo, avvocato penalista di professione e scrittore per diletto, necessità e analisi. L’autore di “L’odio. Una storia d’amore” (Fermento) è il protagonista odierno della nostra intervista.

 

Come e quando è nata l’idea de “L’odio. Una storia d’amore”?
Una notte d’inverno,  in montagna, davanti al camino, bevendo vino rosso per scaldarmi mentre fuori  era tutto neve e freddo. Mi aveva colpito un fatto di cronaca: una violenza subita da una ragazza in un bosco. Avevo finito di leggere in quei giorni “La fine di Alice” di A.M. Homes.

Dopo i racconti Emanuele Ponturo passa al romanzo, una nuova sfida e un esercizio di scrittura diverso. Come ti sei approcciato a questa avventura?

In realtà è avvenuto tutto in modo naturale. Avevo in mente una storia ricca di sfaccettature in cui il punto di vista mutava, una storia che si snodava tra passato e presente. La forma del racconto non sarebbe stata idonea a questa narrazione; mi occorreva un passo più lungo, un respiro più ampio per contenere tutto l’intreccio e ricamarlo. Mentre scrivevo, i personaggi mi conducevano ogni volta sempre un po’ più in là… In questo modo è stato possibile mettere in rilievo i loro stati d’animo. La sfida è stata non priva di fatica e di imprevisti, ma ne è valsa la pena.
intervista emanuele ponturo ChronicaLibriScontata e un po’ provocatoria la domanda sul rapporto tra la tua professione e la tematica del romanzo: un avvocato penalista alle prese con un romanzo dalle tinte fosche. Moda o bisogno?
Entro in contatto con le realtà più dure e disperate, per esigenze legate alla mia professione: violentatori e donne vittime di stupro; sfruttatori e prostitute; spacciatori, rapinatori e vittime di soprusi. Di certo questo “mondo” di storie nere mi ha condizionato nella scrittura. Me ne sono servito sia per indagare il mistero del  male che si agita dentro l’uomo, sia per esorcizzarlo, questo male. Nel mio lavoro di scrittura, inoltre, mi hanno guidato scrittori come Patrick McGrath e Joyce C. Oates con le loro tematiche legate alla psiche, al torbido, all’oscuro, a qualcosa che corteggia anche il perverso, elementi tutti così vicini alle mie corde.
Il protagonista, per vendicare il suo amore, diventa il “lupo” di questa favola moderna. E’ così labile – quasi irriconoscibile – il confine tra amore, disperazione e vendetta?
Infatti il titolo stesso, “L’odio – una storia d’amore”, contiene questa ambivalenza. Il confine è labile perché i sentimenti spesso hanno sfumature non distinte. Amore, disperazione, vendetta,  questi i sentimenti che volevo affrontare: l’amore di  Monica vissuto in attesa di Stefano;  l’amore di Stefano nutrito inizialmente con gli occhi lirici dell’adolescenza, e la disperazione per un altro amore mai corrisposto; la vendetta che si trasformerà in gesto definitivo, ecco, tutti questi elementi, cioè i sogni e le conseguenze che derivano dall’impossibilità di realizzarli, muovono i personaggi ed è difficile stabilire confini tra i loro sentimenti spesso in contrasto.
Odio e Amore sono valori assoluti e distinti o due modi diversi di esercitare la propria volontà sull’altro?
Per me, Odio e Amore possono diventare due modi diversi di esercitare la volontà sull’altro. Avviene quando il sentimento, che continua ad essere ancora molto forte, diventa ostile; spesso accade che un grande amore, quando finisce, si trasforma in odio.
“L’odio. Una storia d’amore” è un romanzo fatto di sentimenti contrastanti: violenza e amore, sofferenza e sogni; una sorta di noir romantico. Quali sono gli ingredienti per un romanzo di questo tipo?
Giocare con le luci e le ombre.

Nella revisione di questo libro ti sei avvalso della collaborazione di Daniela D’Angelo. Quali sono stati i cambiamenti che ha apportato il lavoro di editing alla tua scrittura?
Daniela D’ Angelo è l’editor che ho fortemente voluto per il mio romanzo; le ho  fatto leggere alcuni miei racconti e li ha  apprezzati, allora mi ha chiesto “L’odio” che in quel momento era alla sua seconda stesura. E’ riuscita ad entrare dentro la storia e a renderla incandescente; attraverso un lavoro di maieutica, la trama si è definita e arricchita. Insieme siamo andati nei luoghi in cui si svolge la storia (la Magliana, la scuola di Stefano e di Barbara, l’albergo, il bosco); ma il mio editor è anche una bravissima poetessa; nel libro, le lettere di Stefano, evocative, liriche, perverse, hanno richiesto un lavoro separato dal testo.

Le tre parole che preferisci?
Isola, corpo, notte.

 

foto di Mario D’Angelo

ChronicaLibri incontra Barbara Ottaviani

intervista a barbara ottaviani_chronicalibriROMA ChronicaLibri ha incontrato Barbara Ottaviani, autrice di “Acquasanta”. Ci siamo viste in un book bar dalle tonalità femminili, una location perfetta per conoscere meglio una donna forte, decisa e consapevole del proprio bisogno di scrittura.

Barbara Ottaviani, un medico che decide di scrivere un romanzo?
Non è proprio così. L’anima di medico vive con quella intimista della scrittrice forte in me da sempre, anche da prima de “I cortoracconti di Sonja”, la mia prima esperienza letteraria edita da Navarra editore nel 2006. Sono innamorata delle persone e dell’idea di prendermene cura in senso generale; lo esprimo attraverso la medicina per una parte della giornata e attraverso la scrittura per l’altra.
In “Acquasanta” ho percepito una scrittura che voleva affermare la propria sensibilità nonostante il pragmatismo di tutti i giorni, un amore che venisse fuori dalle pagine come risposta al distacco professionale. E’ così? Barbara Ottaviani attraverso “Acquasanta” esprime la sensibilità che nella vita di tutti i giorni deve mettere da parte?
Sì, se mi ci soffermo a pensare, sento di dare, nei miei racconti, molto respiro alla parte sensibile a discapito di quella pragmatica. Mentre quando sono in ospedale, sebbene di partenza dosi in modo equo razionalità e sensibilità, riconosco, alcune volte, di dover sacrificare un po’ la sensibilità per lasciare più spazio al pragmatismo, alla determinazione, che nel mio lavoro di medico devo avere. Sicuramente la scrittura mi bilancia in senso umano, ma trovo la mia definizione nell’essere un medico-scrittore o uno scrittore-medico.
“Acquasanta” è un romanzo che ha la caratteristica di poter estrarre qualsiasi capitolo e trattarlo separatamente come entità autosufficiente. E’ solo una mia impressione?
No, affatto e sono felice che arrivi al lettore. All’inizio non volevo scrivere un romanzo, quindi scrivevo dei pensieri, dei micro mondi, definendo però dei punti di contatto tra di loro. . Sentivo il bisogno di mettere su carta le emozioni, poi, lentamente, come il fluire di un suono o di un odore, la storia ha preso la sua strada esercitando il suo potere catartico su ogni cosa toccasse. Questa è la scrittura, una forza catartica, che nel momento stesso in cui si manifesta e ti cambia, lenisce il tuo dolore per il cambiamento e si prende cura del tuo bisogno di sicurezza. Posso affermare che “Acquasanta” è andato scrivendosi.
Un processo del genere, però, immagino impieghi molto tempo. Quanto è durata la gestazione di “Acquasanta”?
Poco e tanto. Poco perché i pezzi che compongono il romanzo sono stati scritti di getto, quasi insieme, e in meno di un paio di mesi in tutto. Il tempo lungo è stato quello di trasformazione per rendere tanti pezzi un unico corpo. Senza considerare la mia anima di perfezionista: “Acquasanta” è stato un desiderio da limare e modificare continuamente; tagliavo, tagliavo, cercavo la parola giusta, e poi ancora tagliavo. Volevo che restasse solo l’essenziale. Rileggendolo ora taglierei ancora altro, però mi dicono che è meglio che non lo rilegga più, altrimenti resta solo un aforisma.
La protagonista del tuo romanzo è un’infermiera che si lascia coinvolgere nella storia di una bambina in coma. Come mai questa scelta?
Uno dei primi pezzi che ho sentito il bisogno di scrivere riguardava il diario di una bambina. In quel periodo mi capitava spesso di leggere romanzi o storie in cui i bambini che parlavano si esprimevano attraverso una linguistica e una forma mentis da adulto e lo trovavo molto incoerente. Quindi ho pensato di riscattare un po’ questo mio bisogno di leggere delle parole bambine, scrivendo un diario. Poi, come si diceva prima, la scrittura ha preso il sopravvento, e sono comparsi dei pezzi in cui c’era questa donna, che bambina non era stata mai; nel lavoro di unificazione dei pezzi non ho fatto altro che farle conoscere, il resto è venuto da sé. La scelta di non far parlare la bambina se non attraverso l’indagine della donna rappresentava la sublimazione della ricerca e, secondo me, l’anima dell’indagine emotiva: non ci si conosce se c’è qualcuno che ci da già tutte le risposte. Rintracciando le briciole di pane che la bimba ha seminato lungo il suo cammino, la protagonista ritrova sé stessa.
Perché i personaggi di questo romanzo sono descritti minuziosamente ma non hanno nomi?
I nomi non ti permettono di fare completamente tua un’immagine. La madre è madre per chiunque, la bimba potrebbe essere la figlia della tua vicina di casa o tua figlia, il vecchio, affascinante e oscuro, potrebbe essere l’Uomo che esiste nella vita di ognuno di noi.
Ecco, appunto, il vecchio! Guida e amico della bambina, per il quale la protagonista prova subito una forte e strana attrazione, non ha un nome ma viene reso riconoscibile da una descrizione molto attenta del suo odore. Facci capire meglio, per te il vecchio che odore ha?
Un odore rassicurante, carismatico, molto riconoscibile, familiare. Ha un odore di casa.
Scrivi: “Ho pure spiegato le scapole, rudimentale abbozzo d’ali con le quali prima o poi spiccherò il volo”. Come è nata questa immagine?
Un giorno la mia massaggiatrice Mari mi ha letteralmente afferrato le scapole e ha provato a tenderle al limite come a volerle spiegare. A quel punto, mi è come parso che stesse estraendo le mie ali, ecco è stato allora che ho deciso di scrivere delle ali in fieri, della frustrazione che ci consuma già dal ventre materno quando le ali si trasformano in scapole “come a ricordarci che ce la dobbiamo guadagnare la possibilità di volare”! Mi piace cercare nuove dimensioni dell’anima nel corpo, così come  nella mente.
Le tre parole che preferisci?
Non ho parole che preferisco, ma preferisco di massima le parole che mi colpiscono, e cambiano di volta in volta, di contesto in contesto. E’ come nella vita, se non c’è qualcosa che mi colpisce in modo particolare non so decidermi sulle scelte da fare.

(foto di Studio Kiribiri)

Intervista ad un autore “Clandestino”

Marianna Abbate
ROMA – Vi ricordate la recensione del “Clandestino” (Edizioni Sonda) che ho pubblicato a novembre? E’ inutile che annuiate, andate a rinfrescarvi la memoria e poi tornate su questa pagina a leggere la simpatica intervista all’autore, che serve fondamentalmente a dimostrare che io non ho capito nulla delle intenzioni dello scrittore. Ma d’altronde non è forse questo il destino di ogni critico che si rispetti? Chissà cosa ne penserebbero Dante e Leopardi di tutte le dietrologie prodotte sulle loro opere. Allora perché non approfittare del fatto che l’autore possa risponderci di persona e non correre a intervistarlo? Ecco a voi Ferdinando Albertazzi.

Quali sono gli ingredienti di un buon giallo?
Tono, brillanza e purezza son gli “ingredienti” che differenziano qualsivoglia colore dai suoi “gemelli”. Vale dunque anche per il giallo, che sia colore o… genere letterario.

Perché ha scelto di scrivere per i ragazzi?
Non scrivo affatto per i ragazzi. Non in esclusiva, almeno. Il fatto che nelle mie storie ci siano ragazzi in pagina non significa che siano destinate unicamente a loro. Altrimenti là dove in pagina ci sono invece cani, gatti o maiali, dovremmo considerarle storie per cani, gatti e maiali… Scrivo, questo sì, i ragazzi, indagati soprattutto lungo il frastagliato  percorso verso l’adultità e quindi insieme ai “grandi”. Se una storia che “punta” preferenzialmente i ragazzi non ha almeno qualche valenza anche per gli adulti, è una storia da cestinare.

Quali sono le differenze tra un noir per ragazzi e uno per adulti?
Per come si stanno differenziando le generazioni, per certe impensabili disinvolture “guardonesche” e non solo che mostrano i ragazzi, direi che, paradossalmente, un noir anche per ragazzi deve essere assai meno ingenuo di quello che va a infoltire il catalogo “per adulti”.

Lei insegna in un corso di scrittura creativa: quali consigli si sente di dare a chi vuole iniziare a scrivere, in particolare per i ragazzi?
Non aver paura di avere il coraggio di provarsi, di scommettere contro la pagina bianca. Senza smettere, al contempo, di leggere tanto e senza accontentarsi dei risultati che si pensano già raggiunti. Usare insomma molto il cestino della carta straccia, nella consapevolezza che il difficile non è cominciare bensì durare e che  il temperamento e la qualità letteraria sono tra i fattori decisivi della durata.

Che rapporto ha con i suoi lettori? Le scrivono, vengono alle presentazioni? Come sono, insomma, i giovani lettori?
Durante gli incontri, quelli che hanno la lettura nel DNA sono curiosi e avidi, desiderosi di farsi prendere dalle narrazioni. Quelli che, al contrario, si avvicinano alle storie in pagina con scarso entusiasmo o sono addirittura refrattari,  si lasciano però catturare dai laboratori musicali che Gabriella Perugini ha ideato e realizza per i miei libri. Diversi a seconda delle storie, ovviamente. Sono per lo più proprio quei ragazzi lì, quelli che non leggono volentieri o non leggono affatto, ad apprezzare gli incontri attraverso i laboratori musicali (soltanto così, d’altronde, parlo dei miei libri con i ragazzi), dove sono peraltro artefici. “Ah, ma se si può leggere così, allora…”, commentano stupiti e invogliati. Ed è una conquista davvero promettente, quella che principia dai loro sguardi magari di ironica sufficienza, via via accesi da un incredulo interesse…

 

 

Chronica Libri intervista Matteo Fini, autore de "Non è un paese per bamboccioni"

Stefano Billi

ROMAChronicaLibri ha intervistato Matteo Fini, autore insieme a Alessandra Sestito dell’interessantissimo libro “Non è un paese per bamboccioni” pubblicato da Cairo Editore.
Attraverso risposte sagaci e sincere, il suo libro diventa ancor di più un vademecum essenziale per tutti coloro che, nel centocinquantesimo anniversario dell’Italia, hanno bisogno di riscoprire le eccellenze e i talenti nascosti tra le pieghe del patrio “scarpone”.

Qual è stata l’ispirazione che ti ha portato a raccogliere le storie scritte nel tuo libro?
Più che un’ispirazione, un’esigenza. Personale prima di tutto. Ossia capire se tutti là fuori erano sfigati come noi!
Leggendo i giornali e guardando la tv sembra così e allora ci siamo chiesti se invece in giro non ci fossero ragazzi in gamba che contando sulle proprie forze e nonostante il Paese nel baratro fossero riusciti a trovare una loro strada.

In “Non è un paese per bamboccioni”, certe vicende sono contraddistinte dalla circostanza per cui alcuni traguardi raggiunti dai protagonisti delle storie sono

realizzati attraverso collaborazioni tra giovani.
Sto pensando, per esempio, all’incredibile avventura di Federico Grom e di Guido Martinetti. Ecco, la scrittura a “quattro mani” di questo libro, quanto ha influito sulla riuscita finale del libro?
In realtà il discorso qui è un po’ strano. Poichè io e Ale benchè fossimo rinchiusi sul balconcino di casa mia non abbiamo scritto insieme bensì ognuno aveva le sue storie e infatti se uno avesse voglia di metterci attenzione può notare due stili di scrittura molto differenti. Però ovviamente ce le siamo lette e commentate e non son mancate le stilettate! Io credo di averle cassato completamente una storia che non mi convinceva per nulla e lei più di una vo
lta ha criticato alcune mie scelte stilistiche. Siamo completamente differenti: lei solare, entusiasta, io pessimista, cupo, lei ama l’Italia, io la odio, lei però intanto è a Londra…. e io al Santa Rita a Milano. Lei ama le parole, i colori, io il ritmo e gli accenti. Ma ci stimiamo così profondamente che ogni critica e ogni sfumatura era vista in un’ottica costruttiva e comunque ancora oggi ce ne diciamo di tutti i colori!


Come sono state selezionate le storie di talenti italiani da inserire all’interno di “Non è un paese per bamboccioni”?
Beh, dopo una prima ricerca (non banale visto che nessuno parla di storie se non sei perlomeno reduce dal GF….) tra google, gli amici e qualche magazine non standard, abbiamo selezionato un po’ di ragazzi provenienti da tutta Italia e divisi in vari campi della vita e del lavoro. E siamo andati a conoscerli, ovunque fossero! Volevamo rappresentare il più possibile un ampio spettro di mestieri. Abbiamo dovuto cassare anche qualche storia! Non perchè fosse meno valida dal punto di vista del valore, ma debole dal punto di vista letterario.

Hai già in programma qualche nuovo libro?
Sì, mi sono ripresentato da Cairo con una dozzina di idee. Il direttore dieci le ha cestinate, ma un paio gli son piaciute per cui sto cominciando a metterci la testa. Non posso dire di più però sarà una cosa completamente diversa e, diciamo, legato alla mia vita precedente.
Però l’onda di “Non è un paese per Bamboccioni” non si è ancora fermata e potremmo avere ancora delle sorprese…

Perché i nostri lettori dovrebbero leggere il tuo libro?
Non so se è un buon motivo per leggerlo però io ogni volta che finivo l’intervista con uno dei protagonisti del libro mi dicevo: “Ma cacchio guarda che bravo questo qui! Ma allora ce la posso fare anche io!!” e me ne tornavo a casa con una carica incredibile. Mi è successo anche con ragazzi lontanissimi dal mio mondo lav
orativo, penso a Ruggiero Mango, il cardiologo, o Massimo Fubini, l’informatico, o Laura Torresin, la cuoca trevigiana. E tutti gli altri.
E sai cos’è la cosa bella? Che magari trovi proprio nelle storie più distanti un suggerimento, un input, un flash, un’intuizione che poi ti torna utile nella costruzione del tuo di percorso.