Irene Vella: da amiche a stronzamiche con il sorriso

Giulia Siena
ROMA
Irene Vella è un’esplosione di vitalità, colore, idee e linguaggio. La sua ottima inventiva ha dato vita a “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, un manuale di sopravvivenza alle stronzamiche. Ma questo libro pubblicato da Laurana è molto di più: è un racconto divertente, amaro, disilluso e speranzoso sui rapporti umani e l’affetto. Ecco a voi l’intervista di ChronicaLibri alla vulcanica autrice.

 

 

Da “Sex and the Cake” a “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, come mai sei uscita dalla cucina per affrontare a muso duro le stronze?
Diciamo la verità: è che forse in cucina non ci sono mai entrata 🙂 di quel libro io ho curato le storie, mentre la parte dedicata alle torte è stata affidata ad una cake designer, quindi potrei direi che ho fatto da assaggiatrice. Ma è stato proprio dopo aver finito di scrivere quel libro che ho sentito forte il richiamo delle stronzamiche, e di mettere nero su bianco le mie esperienze e quelle di mia figlia, nella speranza che un manuale di difesa potesse servire alle altre per evitare di ripetere i nostri errori.

 

Le stronzamiche sono parte di noi, ci seguono fin dall’infanzia ed è proprio durante questo delicato periodo di vita che possono prendere il sopravvento. Tu scrivi questo “manuale di difesa” anche per tutelare i propri figli, raccontaci un po’.
Diciamo che l’idea mi è venuta proprio perchè ne ho incontrate talmente tante che il libro si è praticamente scritto da solo, e poi ogni volta che parlavo di questa mia idea a qualche amica (quelle vere però) mi rispondeva così: “ ma dai un libro sulle stronzamiche, spettacolo. Vuoi che ti racconti della mia? Successivamente è capitato che fosse la mia bimba a cadere nelle mani delle piccole stronzamiche ed allora è scattata la voglia di riscatto che si è tradotta in questo libro. Riprendendo un paragrafo “Ma la verità (proprio quella vera vera eh) è che la voglia di scrivere questo piccolo manuale di sopravvivenza mi è venuta quando, ho visto mia figlia, oggi dodicenne, cadere nelle mani di piccole stronzamiche. Sì, perché questo genere femminile, esiste anche in miniatura, è dentro di loro, è più forte di loro, non importa quanto amore ti professeranno, ad un certo punto la voglia di sparlare di te con il gruppo delle seguaci sarà troppo forte, e si mostreranno per quello che realmente sono. Delle api regine in cerca del consenso della folla, sia esso composto da seienni o da dodicenni; il palco è il loro regno, lo scherno il loro strumento, la maldicenza la loro arma.” Ma la vendetta è arrivata, e riprendendo una recensione fatta dall’amica scrittrice Lucia Giulia Picchio “Un regolamento di conti in piena regola e un monito a tutte le stronzamiche ( e le loro mamme) in circolazione: prima di fare le stronze accertatevi che la vostra vittima non abbia una mamma che faccia la scrittrice. Potreste trasformarvi ( in senso metaforico, s’intende) nel prossimo cadavere che vedremo scorrere, sedute sull’orlo dal fiume, con il suo prossimo libro in mano.”

 

Stronzamiche a scuola, in famiglia, in palestra, a lavoro, tra le altre mamme a scuola e in fila al supermercato sotto forma di curate vecchiette stronze. Quali sono le stronzamiche peggiori?
Le stronzamiche peggiori sono di sicuro quelle che tu credevi fossero amiche, e invece erano stronze. Sone le buone rassicuranti, come si dice in toscano “Le acque chete” che sono poi quelle che rompono i ponti, insomma le gatte morte. Quelle che in tutti i laghi e in tutti i luoghi vorranno fotterti quello che è tuo, fidanzato, amici, lavoro, all togheter now.
Ma come si vince l’impulso di strangolare le stronzamiche sul lavoro?
Magari proprio non vincendolo e lasciandosi andare, perchè bisogna essere per forza buone? Se ci accorgiamo che l’amica è una stronza possiamo sempre batterla, diventando stronze di rimando. E ricordatevi sempre il detto delle nonne: non c’è niente di più pericoloso di un buono quando diventa cattivo, lei non si aspetterà una vostra reazione, così voi l’avrete fottuta su tutti i piani.
5. Si può combattere una stronzamica con le sue stesse armi?
Certo che sì, ma il problema è che noi buone e coglione rimaniamo tali anche quando ci vendichiamo, e alla fine siamo pure capaci di essere dispiaciute della nostra vittoria, quindi direi che per vincere davvero meglio isolarle, le peggiori nemiche delle stronzamiche sono loro stesse, basterà lasciarle da sole per un po’ e si autodistruggeranno, come nei migliori film di JAMES Bond.

Donne buone, solari e spontanee si nasce, stronze si può diventare. Come diventare furbe e non farsi fregare?
Secondo me è una questione di sopravvivenza, arriva un certo punto nella vita in cui dopo innumerevoli batoste per forza di cose le antenne antistronze si alzeranno da sole, il rischio però sarà quello di lasciarsi prendere la mano e fare una selezione all’ingresso talmente forte da rimanere sole. Il consiglio? Rimanere se stesse, sempre, le stronzamiche vinceranno una battaglia, noi buone coglione vinceremo la guerra della vita. Tanto come dice la legge di Murphy “ se qualcosa può andare male, lo farà”, ma io sono profondamente convinta del fatto che un’anima pura vince sempre, quindi è solo questione di tempo.

Tutte le stronze vengono per nuocere?
Assolutamente no. Altrimenti io questo libro non l’avrei mai scritto. Diciamo che ci sono dolori che mi sarei e avrei voluto risparmiare a mia figlia, ma cosa sarebbe la vita senza un po’ di stronzamiche? A volte servono a capire quanto si tenga al proprio uomo, al proprio lavoro e alle vere amicizie, quindi riscriverei il detto “una stronza al giorno leva il medico di torno” (ora magari non proprio al giorno, ma una ogni tanto può fare anche bene alla proprio autostima, più riuscirai a schiacciarle, più sarai gratificata:)

Con tutto questo pullulare di persone false, come si fa a riconoscere la vera amicizia e fidarsi degli altri senza cadere nelle trappole tese dalle stronzamiche?
Ti rispondo con uno status che ho messo qualche giorno fa su facebook, proprio dopo essere stata con alcune di quelle che reputo le amiche di tutta una vita, quelle buone. “Le vere amiche sono quelle che prima truccano te, e poi si preparano loro, sono quelle che ti fanno provare milioni di vestiti, poi ti guardano e ti dicono la verità “questo è più figo, ma quello ti fa più secca”, sono quelle che non hanno paura di ascoltare, ma non hanno nemmeno paura di dire quello che pensano, perché le vere amiche fanno questo, dicono in faccia quello che pensano. Le vere amiche non hanno bisogno di tante parole, né di tanti sorrisi, spesso il silenzio parla per loro, così come i loro occhi che sono un libro aperto. Le vere amiche a volte abitano lontano e non si sentono per settimane, mesi, ma tu sai che basterà alzare un telefono, e se sarà necessario, loro si precipiteranno da te. Le vere amiche sono tesori preziosi, e sono convinta che siano gli altri amori della nostra vita. Una vita senza amiche è come una giornata senza sole, triste e buia.”

Progetti futuri?
Sto lavorando al prossimo libro, che avrà come soggetto mio figlio Gabriele detto lo gnomo, in versione naturalmente ironica, cinica e pungente, con un titolo che nulla avrà da invidiare a questo.
Poi approfitto di questa intervista per dire che sto cercando collaborazioni (naturalmente retribuite) e per dare vita ad una rubrica visto le innumerevoli richieste di aiuto e di ringraziamenti da parte di tutte le ragazzine vessate dalle bulle, vorrei parlare delle donne, per ridere sorridere e riflettere tutte insieme.
Le tre parole che preferisci?
Adoro, stronza e ti amo.
La prima è un consenso totale, quando mi piace da morire una cosa, una persona, un modo di essere io “Adoro”, e si capisce che mi prende da dentro.
Per la seconda, Come diceva Funari “ se una è stronza non glie poi dì sciocchina, gli hai da dì stronza”, la trova una parola quasi onomatopeica e tanto liberatoria, quando mi arrabbio è l’insulto che uso di più perchè efficace ed immediato.
La terza: Far capire a chi ti sta vicino che lo ami mi dà gioia, io con la mia famiglia sono così, ai miei figli glielo dico in continuazione, tipo “mi passi l’acqua, te l’ho detto oggi che ti amo?” loro scoppiano a ridere e mi dicono “dai mamma bastaaa”, ma io so che sono felici.
Non smetterò mai di farli sentire amati, penso che un bambino amato sia un bambino felice, e diventerà un adulto capace di dare amore e di innamorarsi. L’altro giorno mia figlia ridendo mi ha detto “mamma babbo ma la smettete di baciarvi di nascosto in cucina? Sembrate due fidanzatini”, ma era felice perchè sa che ci amiamo.
C’è un ‘altra parola che mi piace dire, è Lui, diminutivo di Luigi, il mio maritino mister, la metà della mia mela.
“Luiiiiii te l’ho detto quanto ti amo oggi?”.

 

Irene Vella è anche su FB.

“È più sensato mantenere separate le valutazioni sull’arte e sull’individuo”: ChronicaLibri intervista Nicola Montenz.

Giulio Gasperini
AOSTA – L’esperienza di Montenz dimostra chiaramente come la musica sia cultura e come la cultura sia interrelazione di soggetti creanti e ammiranti. La sua storia del rapporto tra Ludwig di Baviera e Wagner è un intenso reportage letterario, che si anima a partire dalla fisicità della scrittura e dalla concretezza dell’oggetto veicolare. Su ChronicaLibri è già stato recensito il testo, “Parsifal e l’Incantatore” (Archinto); adesso non possiamo che lasciare la parola all’autore.

 

Mi avvicino a te e al tuo lavoro con un disagio profondo. È il disagio di chi sa di non sapere. La Baviera, Ludwig, Wagner soprattutto, sono nomi e situazioni, opere e maschere, che mi sono, sinceramente, remote. Farò delle domande che nascono, come dire, dalle mie impressioni più genuine, più dirette. Dal tuo racconto, ad esempio, si potrebbe evincere che Ludwig e Wagner siano stati due uomini in fuga dalla realtà. Ma è proprio così? Fuggirono veramente la realtà contingente e finirono per cadere intrappolati in una non-realtà?
Certamente la sensazione è giusta: entrambi, per ragioni molto diverse, furono esseri umani in fuga dal mondo circostante. Wagner fuggiva da un’Europa che non lo riconosceva nei termini in cui lui avrebbe voluto essere riconosciuto: ossia come il più grande compositore e pensatore della sua epoca; per giunta, la fuga divenne, a partire almeno dal 1849, la dimensione reale della sua vita, in quanto il compositore, vuoi per ragioni politiche, vuoi – molto più spesso – per motivi finanziari, ebbe, fino almeno al 1872, molti nemici e moltri spettri da cui fuggire. Per Ludwig il problema fu diverso: egli era un disadattato; dapprima, cercò di costruirsi mondi immaginari – operistici, per esempio, o libreschi – in cui nascondere il proprio malessere esistenziale e il proprio orrore per ciò che gli stava intorno; in seguito, in modo sistematico e patologico, prese a fuggire non soltanto la realtà che lo circondava, e in cui non si riconosceva, ma persino i più normali rapporti umani (per esempio quelli con la famiglia, o con la servitù), invertendo, negli ultimi anni di vita, addirittura la notte e il giorno, in modo da poter vivere nelle tenebre, rassicuranti perché nascondevano ciò che non voleva vedere.

 

Due personalità, io le ho definite prendendo in prestito (forse in maniera impropria), borderline. Entrambi avevano qualcosa di sé stessi da nascondere, o da fuggire; o da ignorare, appunto. Noi plasmiamo questi personaggi attraverso la lettura della tua narrazione, ma tu li hai “tradotti”, ovvero tratti-fuori, dalle testimonianze che loro stessi ci hanno lasciato, da un sottile filo d’inchiostro che, in tempi remoti, monitorava l’intimo umano e ne lasciava una traccia indelebile, perdurante. Cosa significa studiare le persone dalle lettere, ovvero dalle tracce che, loro stessi, consapevoli o meno, hanno seminato e disperso?
Certamente si tratta di due personalità borderline, per ragioni diverse: l’uno, Ludwig, schiacciato da complessi di inferiorità tramutatisi, con il tempo, nel loro contrario e in una nutrita serie di disturbi psichici; l’altro, Wagner, abbacinato da un complesso di superiorità talmente esagerato da sfociare, non di rado, nel grottesco, nel tirannismo familiare, nella propensione verso un pangermanesimo ossessivo e follemente antisemita, da cui si avrebbero tratto linfa vitale, più tardi, Chamberlain, Rosenberg e Hitler. Il lavoro di studio e analisi dei carteggi e dei diari di entrambi ha significato per me, in qualche modo, mettere alla prova in forma diversa le competenze e l’attitudine alla ricerca che, in un altro campo, quello della filologia classica, esercito tutti i giorni; d’altro canto, un simile lavoro mi ha portato necessariamente a toccare con mano il fatto che ogni idolo, ogni leggenda, ogni mito che popola la nostra mente alterna attimi di grandezza suprema a lunghe ore, giornate e anche anni di pochezza, di ombra, di miseria, di malvagità o di follia; e questo è naturale, perché dell’idolo noi siamo abituati a vedere solo il lato su cui si proietta la luce – ed è quello che lui vuole mostrarci -; tuttavia, avere il coraggio di sprofondare in esso, fino a coglierne le più minute brutture, può costituire anche un utile esercizio critico: qualcosa di cui oggi si sente la disperata mancanza, abituati come siamo a rimuovere le sfumature, a gridare perennemente al miracolo, a idolatrare senza mai trovare la forza (o il coraggio?) di interrogarci.

 

Sarebbe anche il modo per calibrare meglio gli animi umani e poter capire che, al di là del genio, c’è solo l’uomo a costituire l’impalcatura. E il tuo testo è denso di umanità, nella declinazione più terrena: dispetti, ripicche, sotterfugi, ricatti. Tutti atti (e atteggiamenti) che ben poco penseremmo adattabili all’arte ma che sono invece costituenti dell’umano. Quanto c’è di arte, in questo tuo libro? E quanto c’è di narrazione dell’umano? Il prodotto finale è stato un tuo mirato proposito o te lo sei visto fiorire sotto le mani, scoperta dopo scoperta?
Il fatto è che, quando pensiamo all’arte, spesso dimentichiamo che a crearla sono appunto esseri umani, il cui talento, la cui tecnica e le cui sensibilità professionali possono senz’altro essere straordinari, ma non implicano per forza una corrispondente grandezza morale. Il rigore e la dirittura di un Mahler, tanto per fare un esempio, possono a buon diritto essere considerati eccezioni, in un campo, come quello della musica, in cui spesso è la vanità ad avere il sopravvento, e la grettezza non è un sentimento così lontano dagli animi quanto si vorrebbe credere. Per questo anche il nostro giudizio deve farsi sfumato, ed evitare sia l’idolatria acritica, sia il facile atteggiamento del censore; mi pare invece più sensato mantenere separate le valutazioni sull’arte e sull’individuo che tale arte ha prodotto. Il caso di Wagner, al riguardo, rappresenta in qualche modo un’anomalia, nel senso che la discrepanza tra genio artistico e pochezza umana appare davvero ai limiti dell’umanamente concepibile; pure, questo non deve impedirci di credere che anche in lui si nascondesse un mondo interiore di estrema profondità: come spiegare, altrimenti, la bellezza – talora inarrivabile – della sua musica? Pura applicazione di tecniche acquisite? Naturalmente no – anche perché la sua formazione fu desultoria e certamente lontana dalla completezza accademica. È invece più ragionevole pensare che la musica fosse – insieme al complesso e ristretto groviglio dei suoi veri legami affettivi – la dimensione privilegiata in cui il suo intimo sapeva esprimersi appieno, libero dalle costrizioni della verbalizzazione del pensiero e della dialettica, e momentaneamente separato dalle quotidiane necessità di confronto con gli altri esseri umani. Per rispondere alla seconda parte della domanda, direi che il mio libro cerca di porre in luce i legami tra la vita e l’arte senza insistere con eccessiva minuzia sul secondo aspetto, che è di pertinenza dei musicologi, e sul quale molto (troppo?) è già stato scritto; il mio scopo, del resto, era quello di scrivere un saggio biografico, e se pure la produzione artistica vi svolge un ruolo fondamentale, è altrettanto vero che l’aspetto preponderante di un tale genere letterario è la vita stessa dei soggetti. La forma finale del testo è l’esito di una pianificazione preliminare che segue in modo fedele l’andamento diacronico dell’amicizia tra Wagner e Ludwig, che, nel complesso dei suoi colpi di teatro, scandali, litigi e fughe fu straordinariamente lineare. Il lavoro sui documenti, che è stato lungo, ma anche assai stimolante, mi ha permesso di ricostruire nel dettaglio vicende magari sfumate dalle biografie ufficiali, di approfondire i ruoli svolti da alcuni personaggi, e di fornire, in qualche modo, la mia versione del “romanzo”, cercando sempre di non perdere di vista lo scopo del mio lavoro… ma anche il divertimento per certi episodi, in genere oscurati, per i quali soltanto il sostegno documentario certifica che non sono il frutto di una fantasia malata!

 

E quali sono alcuni di questi “episodi oscurati” che ti hanno particolarmente colpito? Che tipo di influenza possono aver avuto in un rapporto che – correggimi se sbaglio – potremmo definire un ultimo esempio di mecenatismo cortigiano, un po’ anomalo, forse, in una società nella quale oramai tale atteggiamento culturale era oramai inattuabile e sepolto?
Molti sono gli episodi “dimenticati” dai biografi ufficiali di Wagner, che almeno fino agli anni ’60 del XX secolo hanno cercato di evitare lo spinoso argomento della disinvoltura con cui il compositore di comportò nei confronti della moglie: solo per fare un esempio, quando ella morì, Wagner affermò di non poter assistere al funerale a causa di un’infiammazione a un dito! Salvo poi svenire, di lì a poco, quando venne a sapere della morte del cane Pohl. L’intrigo con Malvina Schnorr e il fantasma di suo marito, poi, è talmente incredibile da sembrare inventato di sana pianta, eppure la documentazione che lo sostiene è abbondante e inequivocabile. E persino le furenti schermaglie con il re, a proposito delle anteprime monacensi dell’Oro del Reno e della Walkyria sono state fatte passare come esiti dei capricci di Ludwig, mentre in realtà sono il frutto della prepotenza di Wagner – il quale aveva ovviamente le proprie ragioni, ma cercò di farle valere, nel peggiore dei modi, contro il legittimo proprietario delle due opere.
Il loro esito ultimo, nell’economia dell’amicizia tra i due, fu senz’altro disastroso. Intendo dire: sul piano umano, poiché determinarono il progressivo allontanarsi del re e del compositore, fino al punto di tramutare il loro rapporto in una vera e propria finzione epistolare. Dal punto di vista pratico, non mi sentirei di affermare che il mutamento sia stato radicale, ché Wagner continuò a percepire i denari del re fino all’ultimo giorno della sua vita (compresi i vertiginosi donativi fuori ordinanza che permisero l’edificazione del Festspielhaus).

 

Il tuo nuovo lavoro ha di nuovo a che fare con la Germania, anche se di un’epoca relativamente differente. Il titolo è estremamente suggestivo e anche un poco presago: “L’armonia delle tenebre” tratta dei rapporti tra la musica e il regime nazista. Potresti presentarcelo più dettagliatamente?
L’armonia delle tenebre affronta un capitolo complesso della storia e della cultura del XX secolo, ossia il ruolo svolto dalla musica nella politica culturale del nazismo. L’ultimo capitolo di Parsifal e l’Incantatore toccava, pur se fuggevolmente, il problema dell’intreccio dei concetti di “musica” e “razza”; un problema che la mente di Wagner, per certi versi distruttiva, aveva ponderato in più di un’occasione. Di qui, la curiosità di capire fino in fondo gli esiti di simili derive dell’intelligenza umana.
È nata così l’idea di ricostruire un quadro della cultura musicale in Germania negli anni compresi tra il 1933 e il 1945, partendo dalle premesse teoriche – e in parte, dunque, da Wagner – per arrivare al punto finale: la musica nei campi di concentramento. In sette capitoli, ho cercato di rendere comprensibile al lettore italiano la catabasi del genio musicale tedesco, illustrandone le diverse tappe: le premesse teoriche, cui accennavo prima, e la costituzione di un organismo centralizzato di controllo; le epurazioni; l’apporto di musicologi e critici “militanti” alla causa del regime; il rapporto tra Winifred Wagner e Hitler; la stretta del regime sui suoi artisti; il tentativo di ricostruzione di un moderno (e allineato) panorama musicale tedesco; infine, l’esperienza musicale nel sistema concentrazionario.

 

Tutte ottime premesse per un’ennesima appassionante lettura…

ChronicaLibri ha intervistato Pietro De Bonis, autore di “Brezze Moderne”

Alessia Sità
ROMA –  Baciami alle sei del mattino/capirai che t’amo dall’odore dei cuscini/dai miei occhi chiusi/sempre pronti a fissarti.”
Qualche mese fa ho recensito “Brezze Moderne”, il nuovo lavoro di Pietro De Bonis edito da Lupo Editore. I suoi versi mi hanno letteralmente conquistata e affascinata. ChronicaLibri ha intervistato il giovane autore, che racconta il dietro le quinte della sua ultima ‘fatica’ letteraria. Quella di De Bonis è una scrittura chiara e limpida, che arriva dritta al cuore.
Come è nata la tua raccolta“Brezze Moderne”?
Che brutto il termine raccolta… chiamiamolo libro dai! “Brezze Moderne” è nato da sé  mi sono fatto solo trovare pronto a pigiare i tasti della tastiera, ai suoi richiami.
Perché hai scelto questo titolo per il tuo libro?

Anche qui non saprei risponderti, devi sapere che il primo lettore della mia scrittura sono io stesso. Credo che le opere belle si formino da sè, che l’essere umano serva solo da filo conduttore, da mediatore, per consegnarle agli altri esseri umani. La bellezza della creazione che continua attraverso noi, è una cosa stupenda.
In quale dei tuoi versi ti riconosci di più?

In tutti.
Manifestare un disagio esistenziale scrivendo le proprie sensazioni ha una funzione terapeutica per te? Qual è il ruolo della scrittura nella tua vita?
Ma cosa serve pubblicare i propri disagi? Non bastano già i pensieri quotidiani? Li dobbiamo anche far pesare ad altri? No… alle persone cosa interessa venire a sapere di te, di chi sei e cosa provi? Credo che se si voglia scrivere, lo si debba fare principalmente per gli altri, qui sta il darsi, il donarsi. Un lettore vuole leggere cose che lo riguardano, è chiaro prenda spunto sempre dalle vicende personali, ma attribuisco loro un’ottica più ampia, meno egoista, meno morbosa. La scrittura nella mia vita aumenta ancora di più la bellezza della vita stessa.
Come ti sei approcciato alla poesia?

La scrittura si è approcciata a me, mi ha scelto lei, non io.
Cosa ispira i tuoi versi?

L’amore, i giorni.
Hai un poeta o una poesia a cui sei particolarmente affezionato?

Alda Merini, in “Brezze Moderne” (edito da Lupo) apro con una dedica proprio rivolta a lei.
Tre aggettivi per definire “Brezze Moderne”

Vasto, semplice, attento.

Se siete curiosi di assaporare la bellezza di “Brezze Moderne” vi invito a leggerlo e, a tal proposito, vi segnalo che il libro può essere ordinato in tutte le librerie o acquistato su IBS.

66THAND2ND: John Graham Davies ha battuto Berlusconi

Giulia Siena
ROMA
– Lo abbiamo incontrato a Roma in occasione di Più Libri Più Liberi e quando lo senti parlare capisci che potresti rimanere impigliato nella fitta rete che crea la sua voce. Sì, perché con la voce John Graham Davies si è guadagnato il successo negli anni Settanta come attore teatrale. Oggi, dopo un passato sulle tavole del palcoscenico e come drammaturgo, l’attore britannico veste i panni di scrittore e arriva in Italia con “Ho battuto Berlusconi! Racconto in due tempi (più supplementari e rigori)”. Il libro, pubblicato dalla casa editrice romana 66THAND2ND, è una felice commistione di ironia e quotidianità, politica, passione e sarcasmo. Il protagonista del racconto, Kenny Noonan è un tifoso sfegatato del Liverpool e segue la sua squadra fino a Istanbul per la finale di Champions League contro il Milan. Allo stadio Olimpico Atatürk, Kenny si trova rocambolescamente seduto accanto a Silvio Berlusconi. Da qui parte un racconto che usa le parole del calcio per arrivare alla storia, alla politica e alle lotte che ha dovuto affrontare Liverpool e un uomo come Kenny.

 

ChronicaLibri intervista l’autore di “Ho battuto Berlusconi!”,  John Graham Davies.

 

Una delle peggiori figure della politica italiana entra in un libro di un attore-autore inglese: Berlusconi è un buon personaggio per un libro come il Suo?
Come tantissime persone grandi e potenti anche Berlusconi può ribaltarsi – e alle volte si ribalta – in una caricatura di se stesso; io sono britannico e penso a Margaret Thatcher che per alcuni versi assomigliava al politico italiano, la Thatcher, infatti, negli anni Ottanta è diventata la caricatura di se stessa. Sono personaggi talmente trabocchevoli che perdono la loro credibilità e diventano personaggi perfetti per un libro.

 

John Graham Davies prima di “Ho battuto Berlusconi” è un attore e la Sua professionalità in questo settore è entrata nel libro. Infatti Kenny, il protagonista del racconto, ha la forza narrativa di un attore e si esprime in un monologo che percorre tutta la storia. Come è avvenuto il passaggio dal palcoscenico alla scrittura?
Quando ero ancora attore ho scritto un monologo, quando poi ho cominciato a scrivere questo la prima cosa che mi è balzata in mente è stata l’importanza della voce, il modo di parlare, il ritmo e il ritmo mi piace moltissimo. Quando l’attore parla in maniera diretta è perché si crea una vera intimità; scrivendo questo libro che è appunto un monologo, più andavo avanti e più mi rendevo conto che la formula del monologo poteva funzionale.

 


Nel libro parla di Liverpool, di quei giovani che tenevano molto alla politica e ai propri diritti. Non pensa che la Liverpool di oggi sia cambiata? In che direzione sta andando la nuova Inghilterra?
Sono d’accordo in parte perché sì, certo, è vero: oggi i giovani di Liverpool non si sentono più parte di un movimento organizzato perché queste forme di aggregazione sono state superate e distrutte così da rendere difficile, per esempio, mettere inpiedi una resistenza contro il processo di privatizzazione che sta andando avanti. Dall’altra parte, però, ci sono prese di posizione: le manifestazioni di dicembre a Liverpool per protestare contro la privatizzazione della sanità era piena di giovani. Dal mio punto di vista c’è molto desiderio, anche da parte dei giovani, di resistere, l’unico problema è trovare modi nuovi e adatti al giorno d’oggi per attuare questa resistenza.

 

C’è una città italiana che le ricorda Liverpool?
Sicuramente non conosco così bene il vostro Paese per stabilire un paragone, forse potrebbe aiutarmi Lei, dovrebbe essere comunque una città portuale come Genova o Livorno perché le città portuali sono aperte sul mondo e sono abituate ad accogliere gente e quindi abituate alla mescolanza e alla tolleranza.

 

Io Le dico che leggendo “Ho battuto Berlusconi” vedevo un po’ degli scorci di Genova, ma se dovessimo guardare al futuro, a un nuovo libro cosa pubblicherebbe per il mercato italiano?
Credo che un libro a quattro mani con un amico funzionerebbe nel mercato editoriale italiano. Ora sto scrivendo nuovamente di un uomo di Liverpool dei primi dell’Ottocento, un uomo che ha combattuto la schiavitù e a forza di lavorare nelle navi e aiutare gli schiavi a scappare, contrae una malattia che lo rende cieco. Per il resto della vita, quindi, quest’uomo continua a combattere le varie forme di schiavitù. Chissà se questa trama potrebbe coinvolgere i lettori italiani…

 

Noi, allora, aspettiamo il nuovo libro!

 

Antonio Di Costanzo: tra cronaca e giallo, ecco il papà di Jacopo Fernandez

Marianna Abbate

ROMA – Come avrete capito dalla mia entusiasta recensione, che potete leggere qui, Antonio Di Costanzo è un tipo simpatico. E, nonostante le nostre divergenze filologiche sulla questione del qual (che lui vede come un troncamento, mentre io sostengo essere un’elisione) l’intervista che segue vi dimostrerà quanto accennato in precedenza. Tra orari di lavoro impossibili e impegni imprescindibili, ha trovato il tempo per raccontare ai lettori di Chronicalibri un po di sé.

Da giornalista a scrittore, o da scrittore a giornalista: qual è il mestiere che ti senti cucito addosso? 

“Entrambi. Dipende dai giorni e, soprattutto, dall’umore. Ma forse la mia è solo un’illusione”.

Scrivere: quali sono i sacrifici e le soddisfazioni di questo mestiere?

Chi fa il giornalista sacrifica famiglia e amicizie. Lavora il primo dell’anno, il 26 dicembre, alla Befana e a Pasquetta. Ha orari folli e una vita poco regolare. Ma tutto questo forse, a pensarci bene, non è un sacrificio è una scelta. Scrivere libri, invece, per me sono brevi momenti di follia che si accendono e spengono a intermittenza”.

Perché scrivere un giallo? In cosa si differenzia il tuo libro dai gialli classici?

“Ho scritto romanzi perché quando ho deciso di farlo mi sembrava un’idea intelligente. Il tempo mi dirà se avevo torto o ragione. Il mio dovrebbe essere un giallo-comico, ma sono contrario alle etichette. Posso dire che è incentrato sul protagonista, un uomo scorretto, un cronista beone pieno di difetti e socialmente sconveniente. Jacopo è la tipica persona che una ragazza non potrebbe mai portare a casa per presentarlo come fidanzato ai propri genitori. Dicono che è molto divertente”.

Quanto di te c’è in Jacopo Fernandez, il protagonista dei tuoi romanzi? Cosa ti accomuna a lui, quanto vorresti ti accomunasse e cosa odi di lui?

Bho, posso dire solo che i miei non sono libri autobiografici. Quando però invento un personaggio saccheggio nella mia vita, in quella di amici e parenti e di tutti quelli che ho incontrato. Adoro Jacopo Fernandez, è quello che vorrei essere anche se so che non accadrà mai”.

Cosa significa essere un giornalista eroe? E’ un valore che si raggiunge per merito o un’etichetta mediatica?

“Ah dovresti chiederlo ai giornalisti eroi, non di certo a me. Comunque posso dire che questa è la tipica etichetta che qualcuno appiccica addosso a certi cronisti che magari hanno sacrificato la propria vita soltanto facendo il proprio lavoro. Gli stessi cronisti che quando erano sconosciuti, magari erano vessati, tenuti a distanza e infangati da chi poi li esalta per specularci sopra”.

Esistono ancora giornalisti eroi? Potresti citare qualche esempio?

“No non ho esempi da fare, anche perché il termine eroe non mi piace e secondo me non è corretto. Ci sono cronisti bravi e meno bravi. Gli eroi lasciamoli stare, anche perché storicamente fanno una brutta fine”.

Che cos’è l’ispirazione?

“Non ne ho idea. Io mi metto al computer e scrivo romanzi quando non riesco a prendere sonno la notte. Forse l’ispirazione si chiama insonnia”.

Chronicalibri si occupa di mostrare il volto della piccola e media editoria italiana: com’è il tuo rapporto con Cento Autori?

“Ecco. Ripensandoci, un uomo che si avvicina al prototipo dell’eroe l’ho conosciuto: si chiama Pietro Valente ed è il fondatore della mia casa editrice: Centoautori. Di professione fa il farmacista, ma quello che guadagna l’investe nella casa editrice per diffondere la cultura a Napoli e provincia. Ha avuto anche il coraggio di pubblicare libri scomodi come il Casalese e lo fa soltanto per spirito di servizio e per migliorare la sua terra, rimettendoci tempo e soldi. E poi è una persona corretta. Mandai il primo libro in casa editrice, mi contattarono dopo qualche mese e mi offrirono un contratto per pubblicarlo. Senza tante chiacchiere e false promesse. Una vera rarità”.

Che consiglio potresti dare a chi vorrebbe approcciarsi alla scrittura? Cosa deve fare un aspirante scrittore?

“Non ascoltare i consigli degli altri aspiranti scrittori. Sono ideologicamente contrario a dare consigli”.

“Non mi piacciono i racconti con troppe coincidenze”. Conversando ad Aosta con Deborah Monica Scanavino.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci siamo conosciuti a un delizioso festival, Babel, che qui ad Aosta si tiene tra fine aprile e inizio maggio. Andai alla presentazione del suo libro, una raccolta di racconti intitolata “L’appartamento e altri racconti” (edito dalla END Edizioni) e le proposi un’intervista. Anzi, una chiacchierata. E così è stato. Quella che ho cercato di riprodurre è proprio una conversazione, tra una cedrata e una tazza di tè, che ci siamo concessi, per più di tre ore, ai tavoli del “CAFé-librairie” di Aosta. In barba alla claustrofobicità dei monti, che tanti additano e accusano.

 

Alcuni dettagli di questi racconti mi hanno colpito; soprattutto le pagine che parlano più della contemporaneità. I racconti “Sexting” e “Thinspiration”, principalmente, sono molto interessanti anche perché io non avevo francamente idea che esistessero tali pratiche e non avevo mai letto un’analisi così attenta. “Sexting” m’ha colpito tantissimo: proprio anche questa terminologia inglese sparsa che dà proprio un’idea di freddezza. Questa ragazza che vive un comportamento come se fosse una cosa dovuta, quasi; senza neppure elaborarla in prima persona perché così va fatto, quella è l’impostazione che una determinata cultura ti dà. E questa terminologia secondo me lo scandisce molto bene, perché son tutti termini anche molto usati: termini tecnici che rendono ancora più asettico quello che viene compiuto.
Esatto, volevo proprio indicare questo iato tra la vita di questa ragazza qua, che sicuramente, come dici tu, mette in gioco valori che lei stessa non riconosce assolutamente. Questo racconto l’ho scritto per il concorso “Donne in opera” che quell’anno aveva come argomento “il corpo” e siccome io sono ossessionata dall’idea di essere originale, quando partecipo ai concorsi cerco sempre di declinare l’argomento nella maniera più originale possibile. Cerco, cioè, proprio la cosa che mi interessa ma che declino proprio nel modo che nessun’altra delle partecipanti fa. E mi piaceva quest’idea qua perché cercando in internet, sui blog e anche sui giornali erano uscite queste storie di ragazzine che vendevano le loro foto pornografiche via sms in cambio di ricariche di cellulare; dopo, intervistate o comunque sentite, dicevano: “Beh ma dov’è il problema, cioè che differenza c’è tra una mia foto e il calendario della Belen? Non c’è nessuna differenza proprio” e questa rappresenta una caduta dei valori: mi piaceva proprio l’idea di far parlare queste ragazzine in prima persona.


E infatti quello che a me ha colpito molto in tutti questi testi è proprio questa angoscia, questa sorta di irrimediabilità di un finale, questa accelerazione all’inevitabile, a quello che non è più scongiurabile.
Sì ma perchè io non posso scrivere di amore, non sono capace.
E quando scrivi d’amore, comunque, direbbe Gianna Nannini è “un amore cannibale”. Nel libro, però, l’amore da qualche parte c’è, tipo in “Ciò che ho di più importante” – una sorta di horror erotico -. Talmente cannibale da finire sottoterra. E anche in “Un dolce per te”…
Sì, quello è un po’ diverso perché lui è innamorato ma lei non lo segue. Più che altro nel primo, “L’appartamento”, c’è un amore particolare, in cui loro sono molto vicini e molto in sintonia…

Però è nel contesto di una società completamente disinteressata: l’appartamento lascia il vuoto nel palazzo e addirittura si richiede l’autorizzazione per quel buco, quel vuoto, e invece è ben più importante: è un’umanità che è sparita ed è andata chissà dove…
E continua a sparire: ad esempio, dall’altra parte del mondo ci sono tre coppie che spariscono di nuovo e magari spariscono anche altre perché nessuno se ne accorge. Questo è il paradosso. Perché a me piacciono comunque le storie che finiscono e fanno piangere. Io adoro Stephen King; mi è capitato di leggere un suo libro in cui i protagonisti alla fine si sposano, ma a me piacciono i finali che mi lasciano un po’ di angoscia dentro: li trovo più belli, più emotivi; mi emozionano di più rispetto a sapere che i protagonisti sono felici, perché forse la felicità, almeno da un punto di vista dei racconti, è limitante, e anche perché l’infelicità è una situazione dalla quale tu puoi uscire e puoi, poi, diventare felice. Tra l’altro, secondo me, un libro non finisce con l’ultima pagina: o il protagonista muore e allora lì è finito, è morto, però un libro, un racconto, mostra solo una parte della vita di un personaggio perché poi il personaggio dopo continua la sua vita anche se non è scritta, quindi io nella mia mente mi costruisco il suo futuro, me lo immagino.


Il genere del racconto si presta molto bene a questa scelta; offre un’opportunità maggiore, rispetto a un romanzo, di costruire più parti, più frammenti…
I finali che scrivo sono molto aperti. Lasciano al lettore la possibilità di prendere i dati che ho scritto e riutilizzarli immaginando quale possa essere il futuro. Alcuni miei amici si lamentano dei finali e mi dicono: “Tieni il lettore per mano e poi lo lasci lì”. È però questa una precisa mia scelta stilistica.

Funziona molto bene: questi son racconti costruiti con una pregevole accelerazione. Ad esempio, “Il ragno”. Impressionante proprio il fatto che quest’ansia claustrofobica nasce proprio dal quotidiano, dagli aspetti più rassicuranti.
Una delle paura più grandi, più irrazionali è di non essere al sicuro in posti dove dovremmo esserlo.


Che credo sia la paura in tempi come questi. La quotidianità dovrebbe essere la protezione più certa e sicura. La casa, ad esempio, è la cosa più quotidiana che abbiamo. Il nostro nido. Tutto lì dentro.
Io ho trovato veramente nella mia casa questo ragno che si dibatteva testardo. Quando ero piccola, mi divertivo a rompere sempre la sua ragnatela, ma avevo i sensi di colpa perché lui la rifaceva sempre. Ha ragione il ragno. L’istinto vince… esatto, e l’idea di questo ragno abbozzolato mi piaceva. Questo ragno che cresce mano a mano e non si sa bene cosa accada. C’è questo finale aperto, c’è il buio che non significa proprio la morte… eh sì, perché in questo caso lei rimane comunque tutta imbozzolata dentro la tela del ragno come se fosse morta. Non c’è luce, non c’è aria. Non dà subito l’idea istantanea della morte… No, più dell’angoscia, dell’agonia che chissà come poi si evolve.

 

Sono racconti che creano un’impressione appena finito di leggerli, un’impressione che dopo è difficile da cambiare. Analizzare troppo fa perdere molto del valore che hanno: è giusto che istinto rimanga. L’agghiacciante è proprio questo pericolo incombente del quotidiano: dal cucinare la torte, dalla farina sulle mani che apre uno scenario impressionante – anche perché non verosimile – però preoccupante.
Son racconti simbolici, perché il racconto sulle torte è un po’ splatter, preso da una situazione normale: un mio amico che fa torte, te le regala ma non le mangia mai con te. Lo trovavo triste e ho provato a crearci un racconto. Il protagonista è sotto ipnosi e non si rende conto di farle con ingredienti maledetti: contro la sua volontà.


E la realtà di oggi quanto entra in questi racconti? Sono estraniate da date ed eventi.
Ho scritto questi racconti nell’arco di 5 anni. Il primo, “La maledizione”, voleva essere un omaggio alla città di Aosta. L’ultimo è “L’ultima salita”. Io amo il noir e l’horror, anche se ci sono generi più contemporanei: “Sexting” e i racconti sull’anoressia. Io cerco di agganciarmi alle paure più ancestrali. Vorrei parlare di paura, scrivere un horror che fa paura adesso come l’avrebbe fatto cinquant’anni fa.

Anche le paure del contemporaneo?
Esatto, soprattutto la paura di non avere punti di riferimento: essere in balia, non essere sicuri. Quello che faccio è delineare la paura in una storia nella quale mancano punti di riferimento. Le paura ci sono sempre, con il benessere o con il non benessere. Paradossalmente, nel momento in cui c’è il benessere, come nel primo racconto, c’è questo maggior distacco, tra ricchezza e insicurezza generale di vita. Anche se stai bene, se hai fatto il massimo per garantirti una vita serena, succede qualcosa che ti fa smarrire.


È evidente anche una certa solitudine dei sentimenti e delle reazioni, delle decisioni prese in solitaria. In questo senso, il racconto più esplicativo è “Dopotutto”.
Volevo raccontare la storia di una donna che subisce uno shock biografico, cioè un evento, come un lutto, un fallimento, che crea una frattura, che distrugge, che devasta la vita della persona. Nel racconto ho scelto di parlare di una violenza sessuale. Ho cercato di informarmi il più possibile, su blog, su internet. La protagonista ha subìto questa grande tragedia nella sua vita, che ha segnato una specie di solco e lei cerca distrattamente per tutta la durata del racconto di dimenticare, di far finta che non sia esistito, finché non si rende conto che l’unica cosa da fare è accettare questa distruzione, questo cambiamento, e andare avanti: riconoscere quello che è successo ma … Dimenticare è impossibile… Però il cambiamento avviene in una condizione di solitudine estrema, o volontaria o involontaria.
Quando hai un problema sei veramente tu da solo a doverlo gestire.

Anche negli altri racconti le decisioni prese sono prese da sole. Anche quando uno si fa del male se lo fa da solo. Anche lei, in “Dopotutto”, dice che è colpa mia, si colpevolizza. È una condizione che attraversa un po’ tutti questi racconti, che sono tecnicamente e stilisticamente molto accelerati: spingono velocemente verso una fine inevitabile. Non è facile scrivere un racconto che ti tiene dalla partenza all’arrivo in sospeso. In “L’elfo fratello” va in scena la decostruzione dell’uomo; e alla fine rimane solo il meccanismo che fa andare avanti in maniera inerziale. Anche qui la solitudine c’è, perché non c’è nessuno che ti rallenta in questa corsa: si consuma tutto nello spazio ridotto. I racconti, in generale, non sono facili, da scrivere; nella tradizione italiana abbiamo pochi autori degni di questo nome…
Perché i racconti vengono valutati poco. Le stesse case editrici son le prime a non valorizzarli.

Il pubblico italiano è anche meno abituato di altri alla fruizione del racconto, ma in generale nel nostro paese manca proprio una tradizione del racconto. Il romanzo è più semplice perché ti permette di recuperare, in altre parti, eventuali cali di tensione narrativa. Il racconto, all’opposto, non dà possibilità di recuperare. I tuoi son racconti che narrativamente funzionano in maniera eccezionale. Interessantissimi, ancora, quelli sull’anoressia, già a cominciare dal titolo…
Ho scritto “Le bambole non mangiano” perché avevo una compagna di scuola che aveva una forma pura di anoressia; lei ha scritto un libro sulla malattia, io l’ho letto e secondo me non diceva le cose come andavano dette. Ho scritto un racconto perché è la mia dimensione. Mi sono iscritta su myspace, ho creato un profilo, ho dovuto mettere delle foto in cui ero molto magra perché altrimenti non ci sarebbe stato un contatto con nessuna, e ho cominciato a conoscere tante ragazze. Una aveva scritto sul suo profilo “Dolls don’t eat”: secondo me il titolo rendeva molto bene l’idea. Quest’idea di essere come bambole: non soffrire, non amare, non mettersi in gioco, non far nulla che potesse fare male; preservare la bambola e preservarti nell’anima. Alcune concetti trasformati in racconto le ho derivati dai colloqui avuti con le ragazze, alcune delle situazioni son prese proprio dalle loro vite. È la mia visione della malattia: la fiammella se non ce l’hai dentro nessuno può far niente. “Le bambole non mangiano” è, per altro, uno dei pochi miei racconti che finisce bene: nel senso che la protagonista arriva a capire di poter vivere, pur avendo questa forma di malattia sempre accanto.


Parliamo della ricerca che fai per scrivere…
Io faccio tantissima ricerca quando scrivo perché il mio insegnante di scrittura creativa, che è anche il mio editore, mi ha spiegato questa cosa: quando tu scrivi devi sapere quello di cui stai scrivendo. Per questo faccio tantissima ricerca ed è una parte molto interessante della scrittura. Per “L’ultima salita”, ad esempio, sono andato addirittura alla sede delle guide alpine per sapere come potrebbe essere un cadavere che cade giù da una montagna: la descrizione del cadavere me l’ha data una guida!


Gran parte della ricerca, a quanto ho capito, avviene tramite la dimensione del blog, che oramai fa parte del nostro mondo: è quasi una nuova forma di cultura, che non si fa più sulla carta…
Permette di venire a contatto anche con persone che hanno i tuoi interessi. È un modo più facile e naturale, anche per le possibilità di aprirsi, di confidare le cose.


Le ombre, invece? Qui, nei racconti, ce ne sono tante di ombre… Citi anche King; e Faletti, in apertura. L’ombra che cos’è?
Io sono speleologa; amo molto le ombre e il buio. Quando vado in grotta, ci sono momenti in cui cerco di restare da sola e spengo la luce: mi piace stare qualche minuto completamente al buio nella grotta e ascoltare i rumori. Sono molto più affascinata dal buio però, perché le ombre si muovono, sono più angoscianti.

Danno anche l’idea che qualche cosa ci sia, mentre il buio ti dà l’illusione che non ci sia nulla. Dall’ombra, io ti chiederei di Aosta. A me, trasferito da poco tempo, mi ha dato l’impressione di essere una città molto ombrosa, densa di ombre…
L’ombra ognuno ce l’ha dentro, e se ce l’ha dentro ce la può avere da ogni parte. Io amo molto Aosta e non posso dare ad Aosta la colpa delle ombre che ci sono. A livello architettonico Aosta è una città storica, fondata dai Romani, e prima ancora dai Salassi. Non ha ombre, Aosta; ha la storia. E la storia è fatta dalle persone. Se ci sono ombre nella città, non sono ombre della città ma delle persone che l’hanno abitata e vissuta.


Per questa presenza di antico e di nuovo, Aosta è una città composita: in una forma che neppure Roma è. Roma è molto più ariosa, ti dà la possibilità di scindere e capire quello che vedi. Aosta produce questo effetto molto compatto, quasi come se questi strati di storia si accavallassero, si sovrapponessero anche irregolarmente. Una città ribelle, a questo livello. Un po’ per la conformazione geografica, un po’ per il poco spazio dove costruire: Aosta ha un aspetto molto affascinante.
Aosta è particolare perché quello che più la caratterizza è il freddo. Non è una città comune, ma una città a misura d’uomo: ti dà delle possibilità, degli spazi da ritagliarti, che da altre parti non hai. Ma soprattutto devi combattere con il freddo. E il freddo, a differenza del caldo, non ti permette di lasciarti andare: il freddo devi combatterlo.


Anche è una città che stupisce: in pochi hanno percezione della ricchezza di Aosta. Ci sono dei resti archeologici che neanche a Roma ci sono più, come, ad esempio, il criptoportico. È una città anche molto nascosta, costruita sotto tutto quello che è cresciuto sopra: un aspetto che io avvicino alle ombre, come qualcosa che si cela.
Nei miei racconti le ombre sono sempre nell’interiorità dei personaggi, mentre invece l’ambiente è sempre abbastanza accogliente.


Nel racconto “La chiromante”, invece, ci sarebbe da chiederti se credi nel destino o nel caso…
Io non credo nel destino, nelle streghe, nei fantasmi, non credo nella vita dopo la morte e scrivo di queste cose proprio perché, non credendoci, posso usare uno sguardo di fantasia. Credo nella scienza. Credo nella casualità. Non mi piacciono i racconti con troppe coincidenze, perché nel racconto le situazioni devono avere una loro logicità. Nei racconti, le situazioni sono normali ma prendono delle pieghe interessanti, purché coerenti: è questo quello che cerco con la mia scrittura.

“Sul ciglio del dirupo”, storie di vita

Giulia Siena
ROMA
“Io non sono nient’altro che un involucro, una scatola che contiene uno strumento che viene suonato, ma non da me. Sono passiva a quello che capita, ho smesso di cercare di influenzare le cose quando non ho trovato altra strada da percorrere che accettare.” A dirlo è Monica, protagonista de “Sul ciglio del dirupo”, il racconto che chiude la raccolta e da cui prende il nome il libro di Emiliano Reali pubblicato da Ded’A Edizioni. Monica è soltanto una dei tanti protagonisti che affollano i diciotto racconti di Reali. Sono storie di vita, storie di donne e uomini, storie di disagio, emarginazione, determinazione. Storie di amore, omosessualità, malattia, partenze e arrivi.
La storia di Fabio che in “Senza pelle” (2004) si ritrova sulla strada a condividere la coperta di un nomade e il fuoco di una prostituta. Fabio però non ha pelle e non ha forma per i passanti o per i clienti che si fermano, ai loro occhi lui non appare. Ma di notte, su quella strada, una macchina perde il controllo e la sua vita torna a prendere consistenza, pelle. La storia di Lina (“Gli uomini di Lina”, 2008) che ammalia e regala piacere attraverso una chat; per gioco, per provocazione, per ribellione e per libertà. Clara (“RH Negativo”, 2005) ha voglia di evadere dal suo mondo piccolo borghese. Lei ha tutto, ma ha bisogno di altro e questo lo trova nei tasti di un pc, tra le righe delle conversazioni via chat con i suoi misteriosi amici. Il mistero l’attrae, ma ne viene travolta fino a scoprire il sottile legame di sangue che lega in modo indissolubile.

Dopo il successo di “Se Bambi fosse un trans” (Azimut, 2009), con “Sul ciglio del dirupo. X anni di storie da raccontare” Emiliano Reali racconta le emozioni con un piglio provocatorio in cui dolcezza e realismo si mescolano.

 

Emanuele Cioglia si racconta a ChronicaLibri

Silvia Notarangelo
ROMA“Asia non esiste”, l’ultimo lavoro di Emanuele Cioglia, pubblicato da Arkadia, è un romanzo che non dà respiro. Le scene si susseguono rapide, le vittime si presentano e poi scompaiono all’improvviso, portate via da un male oscuro, inarrestabile e letale. Su tutto e tutti vigila lo sguardo, solo apparentemente distratto, del commissario Libero Solinas. Sarà lui, ancora una volta, a risolvere il caso con qualche grattacapo di troppo. Una storia sconvolgente, che emerge a poco a poco, con tutta la sua forza, grazie all’abilità dello scrittore che non lascia nulla al caso, compreso quel pizzico di buon senso finale, inaspettato quanto ragionevolmente comprensibile. ChronicaLibri ha intervistato l’autore.

Emanuele Cioglia, di professione fotografo. Come nasce la sua passione per la scrittura?

Affonda le radici dai primi confronti con la mia immaginazione. Da quando, in età prescolare, prendevo i fumetti di Topolino e gli eroi Marvel (v) –già diffusissimi negli anni ’70 – e mi inventavo le storie basandomi sulle illustrazioni. Eccola forse già delineata la fonte, l’origine del mio narrare partendo dalle immagini. In effetti, come discorreva Calvino nelle Lezioni Americane, basta osservare una striscia di vignette, le espressioni di un Paperino, per inventarsi dei racconti, innumerevoli, con inizi e finali molteplici, tanto più assurdi e inverosimili quanto più divertenti agli occhi dei bambini. Questa sensibilità per immagini, paradossalmente, diminuisce proprio quando ti danno gli strumenti per esprimerla. Cioè con l’insegnamento, che, purtroppo, a volte, coincide con una scolarizzazione che tendenzialmente uccide la fantasia. La fotografia e le lettere io le respiravo sin da bambino, essendo mio padre insegnante di Italiano e fotoreporter appassionato.

Come si è accostato al romanzo giallo e che cosa, secondo lei, ha in più rispetto agli altri generi narrativi?

Sono sempre stato un lettore onnivoro. Però costantemente a caccia della qualità letteraria, che per me coincide nella capacità di emozionare, indurre al pensiero, alla riflessione, trasportarmi nel mondo dell’autore come se quel mondo di pagine avesse tre dimensioni, quattro sensi, e anche una quintessenza. La lettura è un momento di meditazione, di conoscenza e di evasione, l’approccio al giallo/noir credo sia nato in me nelle fasi evasive. Ma siccome non sono mai riuscito ad evadere totalmente, forse per un senso di responsabilità innato nel mio carattere, eccomi a scrivere romanzi in cui distrazione e impegno ballano insieme un tango un po’ folle. Le origini della mia cultura di genere giallo risalgono al padre di tutti gli scrittori di thriller: Edgar Allan Poe. Il quale davvero sapeva generare suspance, trascinando in atmosfere oniriche gemmate dalle paure ancestrali comuni ad ogni individuo. Forse lui mi ha insegnato cosa significhi inoltrarsi nel gorgo-ingorgo della mente umana, dandomi lo stimolo per lasciare fluttuare la mia penna nei voli irrazionali, e nevrastenici, della perdita di controllo, della pazzia momentanea o definitiva. Conan Doyle invece rappresenta il contrappeso, il mio padrino letterario razionalizzante. M’aiutò ad ordinare le trame e, soprattutto, insegnarmi che: “Una volta eliminato l’impossibile, quello che resta, per improbabile che sia, dev’essere la verità“.
Ma per delineare anime e personaggi, tra le mie letture giovanili, non potevano mancare Dostoevskij, Gogol, Ceckov, Kafka, Zola e Ugo. Accostandomi ad autori più moderni devo certamente qualche suggestione anche a Carlo Emilio Gadda, Manuel Vasquez Montalban, e mi ha divertito lo stile comico di Sepulveda in Diario di un killer sentimentale. Il Montalbano di Camilleri, che lanciando, o rilanciando, uno stile di detective antinomico rispetto agli stereotipi imperanti, portando alla ribalta europea un personaggio sulla carta molto regionalistico, m’ha dato davvero uno stimolo creativo, facendomi comprendere quanto fosse fattibile attingere da realtà, culture, e luoghi, diversi dalle solite “location”, per inventare gialli in realtà più forti e originali di quelli standardizzati. Sono contro l’inscatolamento dei romanzi in generi letterari. Tuttavia credo che il giallo possa contenerli un po’ tutti. Ha certamente un’arma importantissima: il potere-dovere di narrare fatti inconsueti, che rompono la monotonia, che distraggono dalla routine. Questo però non basta, credo che una cifra narrativa affascinante, un modo di esprimersi accattivante, sia indispensabile a generare interesse nel lettore.

Ha un modello di riferimento quando scrive?

Direi di no. L’unico mio obiettivo e raccontare storie mettendo insieme paragrafi e capitoli che mi intrighino, partendo dalla constatazione, di poter intrigare lettori affini ai miei gusti, quindi, naturalmente, non pretendo di piacere a tutti. Certamente, e scivoliamo anche nella domanda successiva, in parecchie descrizioni m’immagino Solinas come una specie di Chinaski di Charles Bukoswki, un personaggio in perenne conflitto con tutti e ovviamente anche con se stesso, uno che vive la vita sempre all’opposizione, ma al quale, suo malgrado, spesse volte tocca andare a governare, nonostante l’indole anarchica.

Il commissario Libero Solinas, protagonista dei suoi ultimi romanzi, è rude, scorbutico eppure suscita immediata simpatia proprio per quei suoi modi di fare un po’discutibili e per quelle sue debolezze cui non intende rinunciare. Si è ispirato a qualcuno per il suo personaggio?

Solinas è rude, scorbutico, cinico, indolente, irascibile, nevrastenico, pigro, e fa quasi tutto controvoglia. Naturalmente è la sua imperfezione a renderlo simpatico. A differenza del succitato Chinaski, l’alterego letterario di Bukowski, Libero è meno categorico, non si compiace del suo caratteraccio, qualche volta prova perfino a correggerlo, e la sua misoginia è solo apparente, infondo non detesta le donne, non riesce a vederle come prede, anzi quasi non le vede, però le invidia. Rispetto a Montalbano è molto più incasinato, insicuro, ma anche i suoi casi sono più ‘cosmici’, quasi metafisici, pur rimanendo fortissimamente terreni e carnali. La mia ispirazione a tratteggiare Libero non deriva solo dalle letture, ma anche dal vissuto; nei bar di Cagliari degli anni ’70 e dei primi anni ’80 -spesso delle autentiche mescite di birra Ichnusa- potevi spesso imbatterti in personaggi alla Solinas, solo che di sicuro non facevano i commissari di polizia …

Leggendo il suo ultimo lavoro, “Asia non esiste”, ho pensato: come si riescono a tenere insieme i fili di una storia tanto complessa, così ricca di personaggi e di situazioni, senza commettere l’errore di risultare ripetitivi e prolissi?

Non è semplice, il segreto è l’esercizio. Conoscere quello che si scrive in forma quasi maniacale. Ripercorrere e riscrivere il lavoro sino al limite del conato. Essenzialmente mi confronto con trame complesse perché a mio modo sono complesso, apprezzo la semplicità ma detesto la superficialità … purtroppo ne vedo tantissima intorno a me. Essere complicati ha ovviamente le sue controindicazioni, quasi mai, sia nella vita che nella scrittura, arrivo a soluzioni seguendo la strada maestra.

La scelta di ambientare le avventure di Solinas nella sua terra, la Sardegna, è solo una casualità, legata ad una inevitabile familiarità con i luoghi, o è una scelta dettata da altro?

La consuetudine a dei luoghi e a delle atmosfere mi ha aiutato ad avere in Sardegna un ‘glossario di idee’ più vasto che altrove. Però sono fermamente convinto che Cagliari abbia una connotazione letteraria. Né troppo piccola, né troppo grande. Fatta di ghirigori barocchi, di balconcini spagnoli, ma anche di squadrate torri pisane, di angoli perennemente umidi di urina, di palazzi scrostati e di ville liberty, di edilizia popolare e di villette a schiera. Antica e orrendamente moderna insieme. Capace di frastornarti a folate di maestrale ma anche di scioglierti in un riverbero d’afa insostenibile. Un posto dove le relazioni umane si diradano come in tutti i grandi centri, dove la disoccupazione e la povertà si affrontano tenendo tutto dentro, senza clamori, senza esternare, quasi con rassegnazione, amplificando angosce e nequizie, un luogo dove per ribellarsi, per far traboccare la fatidica goccia, bisogna esplodere sibilando come una pentola a pressione.

L’attenzione ai particolari, alle sfumature, alle descrizioni è, sicuramente, uno dei punti di forza del suo stile. Quanto l’amore per la fotografia influisce sulle sue scelte stilistiche?

Diciamo che io per natura sono un introspettivo, la fotografia può renderti ancora più chiuso e visionario ma darti anche lo sguardo sul mondo, l’estroversione; il vero fotografo sa che occorre ordine compositivo, bisogna sezionare, catturare rettangoli di realtà, essere capaci di riempirli d’aspetti interessanti, possibilmente artistici, quelli che costituiscono il modo descrittivo della narrazione. Quando scrivo cerco di mettermi nei panni del lettore, oggigiorno molti romanzi sono impostati come sceneggiature. Tralasciano gli aspetti descrittivi, le sfumature, sacrificandoli al cosiddetto ritmo. Io penso invece che occorra -pur mantenendo degli equilibri tra rapidità e descrizione- orientare il lettore, guidarlo, renderlo partecipe delle atmosfere, senza tempestarlo di effluvi di minuziosità petulante, ma neanche lasciandolo orfano di ogni mappatura letteraria, solo in una stanza spoglia fatta soltanto di azione, dimenticandosi che un romanzo non può essere un sottotitolo ad un film che nessuno sta proiettando.

Può rivelarci se è già al lavoro per una nuova avventura del commissario o ha in cantiere qualche nuovo progetto?

Posso rivelarvi che sto lavorando a un nuovo Solinas, ma questa volta, guarda caso, il suo antagonista è un fotografo, almeno lo è all’inizio. Il suo mondo fotografico lo porta ad un’accumulazione di pixel, ad una pletora di inquadrature che lo assalgono appropriandosi di lui, o forse è lui a metabolizzarle ed espellerle con violenza … Una storia basata sul concetto di doppio, che diventa triplo e proiezione geometrica, partendo da un comportamento bipolare che travalica in metamorfosi psichica e fisica, nonché in una proliferazione di personalità incontrollabile e incontrollata. Una storia un po’ pirandelliana, un Uno, nessuno e centomila romanzato e reinterpretato nell’era della tecnologia.

Intervista a Giancarla Dapporto

Matteo Dottorini
ROMA
– ChronicaLibri intervista Giancarla Dapporto, autrice de “La ribellione di Antigone”

Perché ha deciso di raccontare la storia di Antigone? Dopotutto nei tragici è possibile trovare personaggi meno noti, meno rivisitati e sotto certi punti di vista più complessi.
La tragedia di Sofocle viene continuamente rappresentata, studiata, riscritta ancora oggi, dopo duemilaquattrocento anni, perché affronta i famosi conflitti fondamentali che ancora oggi rimangono i nodi irrisolti di ogni società: conflitto fra diritti umani e leggi politiche, conflitto fra individuo e società, conflitto fra generazioni, fra uomo e donna, fra vivi e morti.
E Antigone, la principessa tebana che va incontro alla morte per sostenere il diritto alla pietà, continua a commuoverci, ma anche ad affascinarci, a causa della misteriosa potenza del suo gesto. “Ade…” dice Antigone “…brama il rito funebre e non distingue tra buoni e cattivi.”
Ogni interpretazione di questa tragedia dà ad Antigone un nuovo volto, una diversa voce ed anche una diversa anima. Da Hegel ad Anouilh, a Brecht, alla Yourcenar, sono innumerevoli gli autori di ieri e di oggi che se ne sono innamorati. Più si legge intorno all’Antigone, più il mistero della sua bellezza e vitalità s’infittisce, come quando, puntando il telescopio nel blu della notte, il tondo della lente si riempie di miliardi di stelle. Antigone è una galassia. La bellezza intramontabile di Antigone sta anche negli aspetti della sua personalità, che confluiscono in straordinaria forza di carattere e purezza di sentimenti, uniti a una lucidità intellettuale rara e poco compresa e alla consapevolezza del dolore.
Qualche anno fa ho ritrovato le parole di Antigone nei versi sublimi della tragedia omonima:“Non son d’ieri né d’oggi, ma da sempre vivono e nessuno sa quando apparvero.” Si tratta delle grandi leggi eterne che sono a fondamento della civiltà. Una commozione improvvisa ha fatto riaffiorare il ricordo della mia tesi sulla Fenomenologia dello spirito, dove Hegel definisce Antigone radiosa figura etica, un’essenza etica pura.
A volte, in un periodo storico così sovraffollato di linguaggi contradditori e mistificanti, è necessario sospendere il giudizio per chiedersi:“Come far aderire il significato delle parole alla verità che devono esprimere?” Bisognerebbe tornare alla lingua dei classici greci, al mito.

Perché affidare il racconto alla sorella Ismene?
La voce narrante di Ismene riporta in prima persona e, per così dire, in presa diretta sia gli avvenimenti più lontani che i più vicini. Ismene inizia a interrogarsi sulle cause che hanno provocato la morte della sorella e in questa ricerca, passo dopo passo, ci conduce nell’azione viva della tragedia.
Antigone si rivolge a Ismene chiamandola sorella nel sangue comune, che vuol dire più che sorella di sangue, quasi fossero tessute insieme da un rapporto osmotico. Le correnti osmotiche possono, a volte, annullare la personalità individuale, dissolvere la persona e “permettere agli esseri umani di fluire gli uni negli altri” (Keats). Dunque, quasi uno sdoppiamento del personaggio di Antigone.
Ho avuto qualche riluttanza ad assumere il personaggio di Ismene in positivo, tanto ero affascinata dall’eroina Antigone. Poi, mossa da compassione verso noi mortali comuni, ho preso in considerazione la povera derelitta Ismene, simbolo della femminilità vituperata, che nessuno ama, che ognuno dimentica, destinata a rimanere fuori dalla storia.
Ho immaginato fosse la minore dei fratelli. Mi ha affascinato la visione del mondo di una ragazzetta da poco uscita dall’adolescenza, davanti a fatti gravi come l’incesto dei genitori, immersa nella solitudine a cui era stata costretta dopo la morte della madre e la partenza di Edipo per l’esilio insieme ad Antigone.
Ismene assiste a ogni azione, soffre, interviene, cerca di aiutare la sorella, la ammira ma sa di essere diversa, sa di non voler rinunciare alla vita, alle seduzioni di Eros, che inizia a serpeggiare nel suo giovane corpo. Ci sono molti dialoghi fra le due sorelle, che si snodano durante il loro viaggio di ritorno a Tebe mentre infuria la battaglia sotto le sue mura della città. C’è una relazione fra colpa e destino? E quale fu la colpa che ricade sulle loro teste innocenti?
Quando Antigone viene condannata a morte, Ismene vacilla e in un impeto di generosa disperazione si auto-accusa di averla aiutata a seppellire Polinice. Ma Antigone interviene a scagionarla, salva Ismene perché sarà lei a raccontare tutta la storia. Ismene è la donna che ha scelto di vivere, anche sotto il giogo dell’oppressione.
Vuole dimenticare le colpe dei padri, non vuole essere vittima del destino. Riuscirà a fuggire, ma non potrà dimenticare e diventerà l’erede delle idee della sorella, colei che racconterà al mondo, scrivendo sui fogli di papiro, importati da Cadmo, la storia di Antigone.


Perché proprio questa storia meritava di essere messa in prosa?
Ho sentito la necessità di condividere la passione per Antigone con gli altri; questa storia è un tale tesoro di sapienze e di emozioni che dovrebbe essere oggetto di studio nelle scuole superiori, perché, se le ragazze e i ragazzi la conoscessero, avrebbero gli insegnamenti morali e razionali per comprendere le dinamiche della società odierna. Perciò conscia di affrontare un sacro mostro, ho sentito l’impulso di riscrivere questa materia incandescente in forma divulgativa per tutti.
L’Antigone di Sofocle è un testo per il teatro e non tutti hanno la possibilità di vederlo rappresentato. La lettura del testo di Sofocle non può supplire alla mancanza dell’ambientazione, delle voci, dei costumi, delle danze del coro, che creano la suspance, insomma della drammaturgia cui è destinato. Inoltre anche assistendo alla rappresentazione teatrale, il testo è difficile da penetrare, da approfondire, per cogliere la complessità dei rapporti familiari che legano i personaggi nel rapporto fra colpa e destino. Al tempo di Sofocle i personaggi mitici erano di dominio comune. Tutti sapevano la storia di Edipo- ricorrono parecchie iscrizioni e immagini nell’arte vascolare dell’ antica Grecia- ed è in questo senso che ho cercato di ricostruire l’intero mito di Tebe, per facilitare al lettore la comprensione dei destini fatali che coinvolgono tutti i personaggi, immaginando le azioni ambientate nei paesaggi dell’antica Grecia.
Antigone è un testo anche filosofico. Partendo dal mito di Tebe, dal connubio e dallo scontro fra dei e uomini, nella discendenza da Cadmo e Armonia e dai Seminati, figli del serpente, si potrebbero individuare le origini del genere umano e la duplicità della sua identità, divina e terrena. Così, quando il maestro dell’accademia tesse le lodi dell’uomo, insegna agli allievi la differenza fra legge e diritto e sostiene che il vero male è la superbia. Una sorta di cecità che infrange l’equilibrio fra natura e cultura e porta tutti alla catastrofe. L’Antigone è di un’attualità insospettabile.


Chi sono i Creonti e le Antigoni di oggi? Dove li ritrova e come dovrebbero agire?
A mio avviso i Creonti oggi sono molti, purtroppo. Si potrebbero ravvisare in coloro che, insuperbiti dal potere, perdono di vista la realtà e il dovere che sono chiamati a compiere, in quanto rappresentanti dei cittadini, e provocano danni alle persone e alla natura.
Sono ravvisabili nelle istituzioni che tentano di sopraffare i bisogni e le idee delle persone, opponendo alle leggi democratiche principi religiosi, ostacolando la libertà del singolo di espletare il proprio culto o seguire la propria scelta laica. Mettere in contrasto queste istanze, che dovrebbero rimanere parallele, è un errore di superbia perché, come dice Sofocle, entrambe appartengono ai mortali.
Le Antigoni sono coloro che in tutto il mondo difendono strenuamente i diritti umani contro le barbarie e le inciviltà, si oppongono alle leggi sia laiche che religiose che infrangono i diritti inalienabili della persona. Certo il conflitto esiste, è ineliminabile. Tutti siamo responsabili e chiamati a eleggere degni governanti, ma anche a diffondere e scambiare le idee, a controllare costantemente gli eventi della politica. Siamo noi a creare i dittatori, con la nostra indifferenza.
Ma oggi credo che si debba intendere l’azione di Antigone come ribellione all’imposizione del potere di decidere della vita dei singoli. Se il suo amato fratello Polinice si trovasse in coma profondo e fosse tenuto in vita forzatamente, a causa di un obbligo legislativo, Antigone potrebbe compiere lo stesso gesto di pietà: lasciare scivolare il suo corpo amato nell’atro talamo che tutti ci accomuna, poi dargli sepoltura. Non farebbe altro che seguire una legge sacra antichissima, che sta a fondamento delle prime civiltà.
Nei conflitti armati che oggi opprimono alcuni paesi vediamo come, dopo la distruzione di una città, i parenti dei combattenti caduti richiedano la restituzione del cadavere per dargli la dovuta sepoltura rituale. E, purtroppo, a volte, veniamo a sapere con dolore che dai vincitori viene impedita la restituzione e che i cadaveri vengono lasciati come carcasse allo scempio dei rapaci e degli elementi naturali, per sottolineare che non appartenevano alla comunità degli uomini. Oltre alle perdite della guerra, anche l’ ultimo oltraggio viene inflitto ai vinti.


Possiamo attenderci da lei altre storie ispirate o riprese dalla classicità e dai miti greci?
Sto studiando testi della Grecia classica e ho molte idee, ma non posso ancora rivelare l’argomento.

In viaggio con… Mirko Pallera

Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Mirko Pallera con il suo “Create! Progettare idee contagiose (e rendere il mondo migliore)”.

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Mirko Pallera su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

Mirko Pallera – Create! Progettare idee contagiose (e rendere il mondo migliore)

Sebbene “farlo virale” sia oggi l’ambizione di tutti i pubblicitari e comunicatori in genere, nessuno finora era riuscito a spiegare il vero segreto della viralità. L’autore, da tempo alla ricerca del “santo Graal” della comunicazione, ha trovato la formula per progettare una campagna in grado di “contagiare” un gran numero di persone. Una formula chiara, utile e semplice per progettare il viral-dna di un’idea, alla base di successi come quelli di T-Mobile e Nike, marchi che riescono a ottenere il massimo dagli investimenti utilizzando appieno l’enorme potenziale dei social media. (Sperling&Kupfer, 2012, €18.00)