Non lasciarti ingannare dal "Panico!"

Marianna Abbate
ROMA Se di notte sentiamo dei rumori in salotto, se c’è un temporale fortissimo, se un ladro ci punta contro una pistola abbiamo paura. E’ lecito avere paura durante un terremoto, un incendio o una tempesta in mare. Ma quando siamo al sicuro – mentre guidiamo una macchina o leggiamo un libro, quando prendiamo un caffè al bar o saliamo sull’autobus o siamo in spiaggia a prendere il sole –  e un improvviso terrore ci attanaglia lo stomaco, ci paralizza le gambe ci cattura e ci governa, quel terrore non è giustificabile da nessuna logica. E’ panico.
“Panico! Una ‘bugia’ del cervello che può rovinarci la vita”, questo il titolo del libro-intervista di Cinzia Tani al famoso neurologo Rosario Sorrentino, edito da Mondadori nella collana Bestsellers. Il professore spiega in un linguaggio accessibile a tutti, cosa accade nel cervello di una persona quando ha un attacco di panico. 

Di certo la zona interessata è l’Amigdala- il punto di partenza delle nostre emozioni, che è situata molto vicino all’Ippocampo, il cassetto della memoria. Per questo quando avviene l’attacco di panico, paragonabile quindi ad un corto circuito che ha il suo epicentro nell’Amigdala, il ricordo dell’attacco rimane nitido per tantissimo tempo, e nel paziente si sviluppa una paura della paura, che lo priva della libertà di vivere, costringendolo in un recinto.
Secondo gli studi di Sorrentino – che attraverso l’uso di una risonanza magnetica funzionale è riuscito a fotografare l’attacco di panico – questo fenomeno è dovuto alla mancanza o alla cattiva amministrazione di una sostanza fondamentale per il funzionamento del cervello: la serotonina. Per questo l’unica via di cura per questa malattia, che affligge moltissime persone, sono i farmaci.
Inutile quindi, perdere tempo a parlare dei disagi familiari con uno psicanalista, quando la motivazione del fenomeno è da ricercarsi in una predisposizione genetica coniugata all’utilizzo di sostanze scatenanti quali droghe o caffeina. 
Sorrentino enuncia due fattori fondamentali che rendono molto difficile la cura di questa malattia: il mancato riconoscimento sociale dell’esistenza di questo disturbo d’ansia, e la paura mista alla vergogna di prendere psicofarmaci.
Il professore si batte da anni contro la psicanalisi e a favore di una cura farmacologica, che dimostra sempre più di avere degli ottimi risultati, tanto che presso il suo studio si possono incontrare pazienti da tutto il mondo.
Il libro è un aiuto valido per chi soffre di questo disturbo, ma è anche un’interessante fonte d’informazioni per chi desidera conoscere al meglio una malattia che ha sempre maggiore diffusione. 

Un’intervista "da bar" con Tiziana Cavasino e Herta Elena Rudolph

Marianna Abbate
ROMA -  Vi ricordate "Pensi  che ci saremmo potuti conoscere in un bar?" (Caravan Edizioni), il volume di i racconti sull'Europa dell'est di cui vi parlai tempo fa? Proprio ora, appena tornata dall'Europa dell'est, sono lieta di   presentarvi l'intervista a Tiziana Cavasino e Herta Elena Rudolph, curatrici del libro. Buona lettura!
“Pensi che ci saremmo potuti conoscere in un bar” è un libro corale, fatto da molte persone. Come nasce  e quali sono state le dinamiche che hanno portato a questo libro?
La culla di questo progetto è una delle sedi dell’Università di Padova, dove il 6 dicembre 2006 alcuni giovani studiosi di lingue e letterature straniere hanno partecipato a un convengo sugli autori emergenti europei contemporanei. In quell’occasione fu lanciata l’idea di realizzare un’antologia di racconti in traduzione da tutte le lingue europee da pubblicare su Vibrisselibri, il bollettino-blog-casa editrice dello scrittore Giulio Mozzi. Il nucleo iniziale patavino, nel corso del tempo, si è allargato e sono stati coinvolti altri esperti di letteratura straniera e, soprattutto, traduttori da tutte, o quasi, le lingue europee.
I traduttori, oltre ad aver tradotto i racconti, hanno anche ‘scovato’ autori e racconti, basandosi sul tema scelto dal gruppo iniziale, ovvero “la vita urbana e la città europea”. La selezione dei racconti, la revisione delle traduzioni, i rapporti con gli autori, il reclutamento dei traduttori, la (faticosa) ricerca di una casa editrice sono state svolte interamente dalle curatrici. Giulio Mozzi, in questa avventura, ha avuto un ruolo fondamentale, soprattutto nella fase organizzativa del materiale raccolto. Alla fine di questo lungo lavoro editoriale, infatti, avevamo tra le mani una cinquantina di racconti inediti. Sono bastati un paio di incontri con Giulio per organizzare quella mole di materiale e creare due diversi indici per la ‘mappatura letteraria’ delle nuove voci europee.
“Pensi che ci saremmo potuti conoscere in un bar? Racconti dall’Europa dell’est”, pubblicato da Caravan Edizioni alla fine del 2010, è solo una piccola parte del grande progetto europeo iniziale, benché sia un libro completo in sé.
Il resto dei racconti, infatti, è ancora in cerca di editore.

Questo libro è una raccolta di racconti ambientati in diverse città dell’est. L’Europa dell’est oggi è tanto diversa dall’Occidente?
A
una prima lettura si ha la sensazione che non ci sia una grande differenza tra
vivere in una città occidentale e vivere a Bucarest, a Budapest o a Salonicco:
la ressa sui mezzi pubblici, gli odori nei sottopassaggi, le attese alla
fermata dell’autobus, le chiacchiere al bar sembrano sempre le stesse, tuttavia
noi non abbiamo mai perso di vista il fatto che i racconti siano stati
originariamente scritti in lingue diverse depositarie di storie e culture
profondamente diverse tra loro.
Quello che emerge in alcuni di questi racconti è il rischio dell’omologazione culturale: i segni di un lento e inesorabile processo di occidentalizzazione nei paesi usciti dai vari regimi comunisti sono ben visibili. Il sogno dell’ovest e del capitalismo hanno segnato il passato recente di paesi come la Croazia e la Romania e il passato un po’ meno recente della Grecia. Tuttavia i protagonisti dei nostri racconti hanno spesso un atteggiamento critico e diffidente nei confronti della società consumista occidentale. Il benessere agognato si è spesso rivelato un miraggio irraggiungibile o, molto più crudelmente, la condanna a una povertà ancora più disumana.

Cosa vi ha guidato nella scelta dei racconti?
Lasciando da parte l’aderenza al tema prescelto, che era la condizione essenziale, ciò che ci ha guidate dall’inizio alla fine nella scelta dei racconti è stato il desiderio, condiviso anche con i traduttori, di dare spazio a una scrittura di qualità. Tutte le volte che ci siamo trovate di fronte a un racconto ben scritto la decisione è stata facile e unanime. L’altro obiettivo era quello di prediligere autori inediti o scarsamente conosciuti in Italia: cercavamo delle voci nuove che ci raccontassero delle realtà altre con un linguaggio diverso dal nostro. Per questo ci siamo fidate molto dei traduttori, non potendo leggere tutti i racconti in lingua originale. Nel caso specifico di “Pensi che ci saremmo potuti conoscere in un bar?”, la scelta di pubblicare racconti provenienti da paesi ‘dell’est’ (‘etichetta’ che però va un po’ stretta ad alcuni dei paesi inclusi) è in linea con la casa editrice il cui intento è quello di dar voce a culture e letterature di cui si sa molto poco. Alcuni dei paesi inclusi nella raccolta, tra l’altro, iniziano solo ora a trovare la loro, nuova, identità – pensiamo alla Croazia che è nata dalle macerie della ex Jugoslavia. Ed è interessante leggere in che modo i due autori croati affrontano il tema dell’identità. 

Guardando alla realtà letteraria dell’Europa, pensate che in Italia ci sia bisogno di una ventata di “novità”, provenienti, perché no, dall’est?  
 Le novità letterarie sono sempre auspicabili, da qualunque parte arrivino. Il panorama letterario dell’Europa dopo la caduta del Muro è ancora frammentario, ma una parte dell’Europa dell’est, o di quella che un tempo era considerata Europa dell’est, ha sicuramente molto da raccontare sulle vicende degli ultimi decenni di cui oggi si intravedono i primi frutti. I paesi che sono emersi da quella esperienza sono ancora alla ricerca di un’identità e una riflessione sull’identità europea è prematura, almeno per quanto riguarda gli autori di questa raccolta.
Da questo punto di vista la casa editrice Caravan ha fatto una scelta coraggiosa selezionando racconti da ‘lingue minori’ e da paesi e letterature poco conosciuti in Italia, ma che sono molto vicini a noi e che probabilmente lo diventeranno sempre di più.


Carlo Mazzoni racconta i suoi “Due Amici”

Silvia Notarangelo
Roma – Esistono dei libri da cui è difficile separarsi, perché la lettura scorre veloce, la storia è incalzante, ogni riga aggiunge quel qualcosa di nuovo e, a volte, inaspettato, che costringe, inevitabilmente, ad andare avanti. Due amici”, il romanzo di Carlo Mazzoni pubblicato da Fandango, appartiene a questa categoria. ChronicaLibri ha intervistato l’autore:
Lei racconta la storia di un’amicizia che sembra perfetta. Talvolta sbilanciata, conflittuale, eppure indissolubile. Esiste davvero un sentimento così forte, capace di superare tutto, litigi, incomprensioni, persino tradimenti? Come è nata l’idea di questo romanzo?
Non so se esista, un’amicizia così forte. Non so se esista un legame, fra due persone, così forte. A volte ci credo, a volte ne dubito.

Questa è l’idea, la domanda alla base del romanzo. Sono cresciuto credendo a un’amicizia, vivendo un’amicizia e lottando per essa. Oggi questo legame è incrinato, per cui la mia domanda è più aperta che mai.

Ho letto che si è diplomato al Conservatorio. Anche Gio, uno dei due protagonisti, studia musica e suona il pianoforte. Ci sono altri elementi autobiografici?
Io sono in parte Matteo e in parte Gio. Io soffro di diabete da quando ho dieci anni, vivendolo così come ho scritto per Matteo. Il mio carattere somiglia a quello di Matteo, la mia infanzia è simile a quella di Matteo. Sono sempre io però che partivo per New York come Gio nel libro, io che prendevo la distanza dal mio amico per cercare la mia identità. Molti dettagli mescolano le due figure, come l’esame al Conservatorio di Alessandria che nel romanzo lascio al personaggio di Gio. 
“Due amici” ripercorre l’evoluzione di una patologia, il diabete, che, pur condizionando la vita di Matteo, non gli impedisce di continuare per la sua strada, di realizzarsi, di divertirsi. Tralasciando i risvolti più drammatici a cui Matteo andrà incontro, pensa che la possibilità di convivere con la malattia, senza, per questo, privarsi di nulla, possa essere una chiave di lettura del libro?
Il diabete è una lezione di rigore, di concentrazione. Il diabete, la malattia in genere, ti costringe a chiederti dove davvero vuoi andare, cosa davvero ti interessa nella vita. Una malattia ti lascia precario davanti al futuro, amplia la tua nostalgia per il passato, ti fa sperare di vivere ogni momento che ti è concesso al limite delle tue forze. Il diabete per me è, oggi mi viene da dirlo, un sintomo di fortuna: una malattia che davvero mi ha insegnato moltissimo.
Il romanzo risulta estremamente coinvolgente grazie anche ad uno stile asciutto, ad un ritmo serrato, in cui non c’è mai una parola di troppo. Una scelta voluta?
 Ho lavorato molto all’italiano di questo libro. Cercando una grammatica più lineare, la costruzione del periodo più logica. Leggendo un qualsiasi articolo di giornale, quando incontrate una frase principale che inizia con ‘ma’ o ‘eppure’, provate a rileggerla togliendo la congiunzione: il significato verrebbe espresso meglio. In italiano è sbagliato iniziare una frase con una congiunzione, nonostante oggi tutti scrivano così. 
Cito dal testo “Quando tocchiamo il fondo o crediamo di toccarlo, ci calmiamo, smettiamo di avere paura e iniziamo a sopravvivere – non a vivere – a sopravvivere”. Che cosa contraddistingue, secondo lei, una vita “vissuta” da una legata a semplice “sopravvivenza”?
Vivere a pieno è quello che Matteo si impegna a fare, quello a cui costringe Gio – senza tollerare debolezze, scorciatoie, facilitazioni. Vivere in pieno significa non accontentarsi, credere in quello che si fa, avere uno scopo e essere in corsa per realizzarlo. Vivere significa mettersi in discussione, non essere mai sicuri di niente e curiosi di tutto, rifiutare le abitudini. Vivere significa moltiplicare i propri talenti – riprendendo la frase del Vangelo che cito in ogni mio romanzo, a cui io credo tantissimo. Chi nasconde la propria mina e la restituisce così come l’ha ricevuta: costui non vive, ma sopravvive.
Può svelarci qualche progetto futuro? Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ci vorrà molto tempo prima di vederlo compiuto. A novembre lancerò in rete “Il fuoco”, a cui sto lavorando dall’inizio di quest’anno, su Itunes, Netflix e Youtube. E’ una canzone, una melodia, una poesia, una preghiera: la preghiera di Gio davanti al suo amico che muore.

Lei racconta la storia di un’amicizia che sembra perfetta. Talvolta sbilanciata, conflittuale, eppure indissolubile. Esiste davvero un sentimento così forte, capace di superare tutto, litigi, incomprensioni, persino tradimenti? Come è nata l’idea di questo romanzo?
Non so se esista, un’amicizia così forte. Non so se esista un legame, fra due persone, così forte. A volte ci credo, a volte ne dubito. Questa è l’idea, la domanda alla base del romanzo. Sono cresciuto credendo a un’amicizia, vivendo un’amicizia e lottando per essa. Oggi questo legame è incrinato, per cui la mia domanda è più aperta che mai.

Ho letto che si è diplomato al Conservatorio. Anche Gio, uno dei due protagonisti, studia musica e suona il pianoforte. Ci sono altri elementi autobiografici?
Io sono in parte Matteo e in parte Gio. Io soffro di diabete da quando ho dieci anni, vivendolo così come ho scritto per Matteo. Il mio carattere somiglia a quello di Matteo, la mia infanzia è simile a quella di Matteo. Sono sempre io però che partivo per New York come Gio nel libro, io che prendevo la distanza dal mio amico per cercare la mia identità. Molti dettagli mescolano le due figure, come l’esame al Conservatorio di Alessandria che nel romanzo lascio al personaggio di Gio.

“Due amici” ripercorre l’evoluzione di una patologia, il diabete, che, pur condizionando la vita di Matteo, non gli impedisce di continuare per la sua strada, di realizzarsi, di divertirsi. Tralasciando i risvolti più drammatici a cui Matteo andrà incontro, pensa che la possibilità di convivere con la malattia, senza, per questo, privarsi di nulla, possa essere una chiave di lettura del libro?
Il diabete è una lezione di rigore, di concentrazione. Il diabete, la malattia in genere, ti costringe a chiederti dove davvero vuoi andare, cosa davvero ti interessa nella vita. Una malattia ti lascia precario davanti al futuro, amplia la tua nostalgia per il passato, ti fa sperare di vivere ogni momento che ti è concesso al limite delle tue forze. Il diabete per me è, oggi mi viene da dirlo, un sintomo di fortuna: una malattia che davvero mi ha insegnato moltissimo.

Il romanzo risulta estremamente coinvolgente grazie anche ad uno stile asciutto, ad un ritmo serrato, in cui non c’è mai una parola di troppo. Una scelta voluta?
Ho lavorato molto all’italiano di questo libro. Cercando una grammatica più lineare, la costruzione del periodo più logica. Leggendo un qualsiasi articolo di giornale, quando incontrate una frase principale che inizia con ‘ma’ o ‘eppure’, provate a rileggerla togliendo la congiunzione: il significato verrebbe espresso meglio. In italiano è sbagliato iniziare una frase con una congiunzione, nonostante oggi tutti scrivano così.

Cito dal testo “Quando tocchiamo il fondo o crediamo di toccarlo, ci calmiamo, smettiamo di avere paura e iniziamo a sopravvivere – non a vivere – a sopravvivere”. Che cosa contraddistingue, secondo lei, una vita “vissuta” da una legata a semplice “sopravvivenza”?
Vivere a pieno è quello che Matteo si impegna a fare, quello a cui costringe Gio – senza tollerare debolezze, scorciatoie, facilitazioni. Vivere in pieno significa non accontentarsi, credere in quello che si fa, avere uno scopo e essere in corsa per realizzarlo. Vivere significa mettersi in discussione, non essere mai sicuri di niente e curiosi di tutto, rifiutare le abitudini. Vivere significa moltiplicare i propri talenti – riprendendo la frase del Vangelo che cito in ogni mio romanzo, a cui io credo tantissimo. Chi nasconde la propria mina e la restituisce così come l’ha ricevuta: costui non vive, ma sopravvive.

Può svelarci qualche progetto futuro? Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ci vorrà molto tempo prima di vederlo compiuto. A novembre lancerò in rete “Il fuoco”, a cui sto lavorando dall’inizio di quest’anno, su Itunes, Netflix e Youtube. E’ una canzone, una melodia, una poesia, una preghiera: la preghiera di Gio davanti al suo amico che muore.

Simone Di Matteo: il volto giovane dell’Editoria italiana parla della Diamond Editrice

Alessia Sità
Roma
– Simone Di Matteo, uno dei volti più giovani dell’Editoria italiana, racconta a ChronicaLibri la sua passione per la scrittura e la realizzazione di un sogno: la Diamond Editrice.
Cosa spinge un ventisettenne a diventare editore?

Ognuno ha un sogno. Il mio è fare l’editore oltre a coltivare la mia passione per la scrittura. Ho sempre saputo cosa volevo fare, e l’ho fatto. Determinazione, coraggio e passione per ciò di cui vivo. Sommariamente questo e la lotta contro l’editoria a pagamento mi hanno spinto a divenire un editore.

Nella storia dell’editoria italiana la figura dell’editore è sempre stata legata a un’immagine di uomini con esperienza e dalle scelte importanti, non è troppo “rischioso” avventurarsi in questo mestiere senza la dovuta “gavetta”?

Tutto è rischioso, anche alzarsi dal letto al mattino. Io non penso che solo la “gavetta” sia necessaria per un buon editore, anche se auspicabile. I grandi editori del passato sono molto differenti da quelli odierni. Io non voglio assomigliare a nessuno né agli uni, né agli altri. Le doti che un editore deve avere sono varie e numerose: a partire dall’inventiva e dall’originalità delle proprie iniziative, la conoscenza della lingua italiana, e la capacita di trasmettere ai propri autori e collaboratori il senso e i principi con cui scrivere e comunicare ai lettori. Ma soprattutto serve gusto e intuito, in fondo è di letteratura che stiamo parlando e non di editoria scientifica o giornalistica. Non dico che siano doti innate in tutti gli editori, ma sono peculiarità da raffinare con il tempo e con l’esperienza. Soprattutto e sempre con la lettura e con la passione per la ricerca letteraria.

Qual è la proposta editoriale offerta da Diamond?

La Diamond Editrice pubblica narrativa. Abbiamo ben nove collane che racchiudono gli svariati generi letterari e una nuova collana “Dittici” da poco inaugurata dedicata a nostre antologie, o scritti brevi in forma dittologica, ovvero in cui si ravvisi una duplice necessità del pensiero. Pensare per schemi binari è una delle caratteristiche della civiltà occidentale, ed oggi tutto si muove su logiche binarie. Appena pubblicata, ad esempio, nella collana Dittici, un’antologia: l’opera collettiva “Del Vizio e della Virtù – Antologia di racconti del XXI secolo” che vede al centro del volume come ideale cesura e al contempo come transizione intellettuale e letteraria un racconto donato da Dacia Maraini.

Come mai la scelta di investire sugli autori emergenti?

La Diamond Editrice offre agli scrittori emergenti tutto l’appoggio necessario e gli strumenti atti a valorizzare ciò che di più prezioso possiamo trasmettere alle generazioni presenti e future. La nostra attività è rivolta alla qualità del prodotto letterario, selezionando per il tramite del comitato scientifico di lettura, eventuali manoscritti da pubblicare, siano essi di autori emergenti che già noti nel panorama letterario italiano. Oltre la qualità contenutistica, la Diamond si pone come obbiettivo anche la piacevolezza estetica del prodotto libro, infatti, i nostri illustratori sono stati scelti dopo un’attenta analisi dei propri lavori. Giampaolo Carosi e Daniele Pacchiarotti sono per la Diamond Editrice un’importante risorsa come lo sono i membri dello staff Diamond, ognuno per le proprie competenze. Per noi, un buon libro è come un diamante, è per sempre.

Sempre meno libri venduti, sempre più case editrici: come vive la Diamond questa continua “lotta”?

La Diamond è approdata nel mondo perché non sopporto l’idea che chiunque, così per caso, ogni mattina, possa pubblicare un testo improvvisandosi scrittore pagando. Sto combattendo dai miei esordi il business dell’editoria a pagamento, che per me, è la causa dell’allontanamento dalla lettura. E l’Italia, si sa, è il paese in cui si scrive di più, ma si legge di meno.

C’è un autore in particolare che ha segnato il tuo percorso professionale e personale?

Non attingo mai da altre fonti. Dietro di me o i miei scritti ci sono solo e soltanto io. Per quanto riguarda i grandi della letteratura che stimo e leggo e rileggo sempre con grande piacere sono Cotroneo, Galasso, Piccolo, De Luca, Moravia, Pasolini, Lucarelli, o anche Alda Merini. Poi sono un grande appassionato di mitologia e autori classici.

Come nasce l’accordo fra la Diamond Editrice e la Croce Rossa Italiana?

Tutto è partito da un’idea che mi circola in mente da quando ricordo ho cominciato a pensare, ovvero che non è possibile cambiare il mondo da un giorno all’altro, ma pensare di poterlo fare è un bel gran passo in avanti. Ho conosciuto la Croce Rossa Italiana grazie a due cari amici e collaboratori che sono volontari della C.R.I. e durante una riunione abbiamo pensato ad un motivo per il quale Solidarietà e Cultura ancora non si fossero coese per il futuro. Da qui…

Che consigli di lettura ti senti di dare?

Intanto leggere è il primo consiglio. Poi imparare a scegliere cosa leggere, perché non tutto va bene. La vita è troppo breve per sprecare del tempo a leggere qualcosa di brutto o di inutile. Direi che si deve iniziare dall’inizio: per esempio leggere Omero e Virgilio prima di tutto e di tutti, adesso poi sono anche tradotti in prosa. Poi si può proseguire con i grandi romanzi dell’ottocento, che almeno una volta bisogna leggere. Balzac e Dickens … Il capolavoro assoluto è Madame Bovary di Flaubert, ma nella traduzione di Maria Luisa Spaziani. E poi la letteratura italiana del Novecento da Svevo a Pirandello fino a Moravia e Sciascia, Calvino e Elsa Morante.

"Siamo stati diseducati alla sopportazione della sofferenza". ChrL intervista Lorenzo Minoli.

Giulio Gasperini
ROMA – Capita spesso che autore e recensore non si accordino sulla comprensione di un romanzo. E che il confronto tra i due sia faticoso e finanche un po’ arido, se non si ha la possibilità di confrontarsi serratamente per edificare, insieme, una possibile chiave di lettura. In queste situazioni sarebbe più opportuno realizzare un’intervista con l’arte del contraddittorio. Ma, si sa, non sempre è possibile, soprattutto in quest’epoca dove, se si può affidare tutto alla procura d’un computer, nessuno riesce a sottrarsi. In questo caso è avvenuto così: non ho avuto la possibilità di confrontarmi passo dopo passo con l’autore, Lorenzo Minoli, sui tanti luoghi del suo romanzo, “Il momento perfetto”, sui quali mi sarei, con lui, confrontato apertamente.

Come prima domanda le darei l’opportunità d’un chiarimento (che serve in primo luogo a me). Dopo aver letto la mia recensione, lei mi ha scritto che l’aveva trovata un po’ “cattiva” e che, a suo parere, non avevo centrato il tema. Vorrei che mi chiarisse questa prospettiva, per la quale avrei frainteso il suo romanzo.

Innanzitutto mi pare che ci sia una differenza importante tra il commento/giudizio in generale e le stelle date (si tratta del sistema di voto di http://www.anobii.com/ N.d.I.). Non che onestamente mi importi più di tanto ma mi piacerebbe capire come si va da quel che viene scritto sul libro ad una valutazione così bassa. Infine non ho proprio capito il penultimo paragrafo “Le prove si susseguono, con i soliti padri autoritari, le madri soffocanti d’affetto, le fidanzate asfissianti, le crisi prodotte dalla fine delle illusioni: ogni volta la storia pare un copione perfetto, con ritardi più o meno bilanciati, ma pur sempre con tappe obbligate, che non possono esitare nel presentarsi. Lorenzo Minoli gioca a riscrivere la sua personale versione del perfetto copione del perfetto adolescente: che ogni volta ha un nome e un carattere diverso, un fisico e un colore di occhi nuovo, ma che, alla fine, indaga sempre per le stesse risposte.” In realtà sembra che si sia letto un altro libro, non ritrovo nulla di tutto questo nella storia. Le fidanzate non sono asfissianti: sono incerte e spaventate dall’insicurezza del giovane che non ha gli strumenti emotivi e culturali per capire cosa succede intorno a lui. Di madri soffocanti d’affetto non ce n’è neanche una, semmai una (quella di Francine) comprensiva e “madre”; l’altra proprio l’opposto della madre affettiva. Infine proprio non ho capito il concetto di riscrittura della stessa storia con caratteri diversi. Quali sono questi caratteri diversi?

Mi pare persino troppo banale chiederle che tipo di apporto abbia avuto, nella stesura del romanzo, la sua esperienza come sceneggiatore. Quel che invece mi interessa chiederle è se, secondo lei, sia facile scrivere la sceneggiatura di un film, cosiddetto, “di formazione”. Ne abbiamo visti tanti, di codesti film, ma molti sono tutt’altro che riusciti; e tanti altri ancora contrabbandati come tali ma totalmente lontani dall’essenza della definizione stessa…
Non è banale, la domanda, perché in realtà questo è sempre stato il mio modo di scrivere ispirato dalla letteratura sudamericana; da certa letteratura nordamericana. Certo l’essere anche sceneggiatore mi da i “tempi” ma è tutto li. In quanto a film di “formazione” la definizione mi pare molto ampia: Qualcuno volò sul nido del cuculo, Zabriski Point, Blow Up, Un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Uomini contro tanto per citarne alcuni mi sembrano films di “formazione” in quanto tendono a “formare” animo e cuore. Certo se si vuol parlare di Laura Antonelli e Momo allora sono d’accordo quelli erano films lontani dall’essenza della formazione, ma così non lo erano, ad esempio, La guerra dei bottoni e I ragazzi della via Paal.

Fausta Cialente, nel suo racconto Pamela o la bella estate, condanna la sua eroina a un destino simile al protagonista del suo libro. E anche Woody Allen, in Vicky Cristina Barcelona, pare sottostare allo stesso concetto di fondo: l’estate è la stagione in cui, più di altre, si rischia la crescita, la maturazione, il compimento un cammino cominciato magari altrove ma mai concluso. La sua scelta dell’estate, come scenografia temporale del romanzo, sottostà a questi ragionamenti o ha altre motivazioni?
Nella mia storia l’estate è casuale ed è anche una breve presenza. La storia è in flash back, copre tutte le stagioni. Poi si può dire che l’estate facilita certe situazioni sentimentali ed esistenziali perché col tempo libero specie quando si è studenti si pensa di più al proprio “io” perché ce lo si può permettere e io credo anche perché lo “spogliarsi” fisicamente dei vestiti ci spinge quasi naturalmente verso una libertà esteriore e interiore più difficile quando siamo “vestiti”, “protetti” da vari strati di indumenti. Una mia ipotesi, forse troppo cinematografica anche questa.

Adesso una domanda un po’ campanilista: come mai è così affezionato (come parrebbe dalla lettura del romanzo) a quelle che sono i miei luoghi, le mie coste, i miei piccoli angoli di paradiso, ovvero alla Maremma grossetana?
Sono arrivato in Maremma nel 1963. C’erano stradine di terra (poche), cinghiali (tanti) zanzare (tantissime e grandi come elicotteri). Pochi coraggiosi villeggianti e tanta, tantissima libertà e felicità. Da allora ho passato TUTTE le mie estati in Maremma almeno per un mese. Anche durante i miei vent’anni di USA ho portato tutte le estati i miei figli a passare le vacanze in Maremma, che per me è Maremma non Toscana. Amo le pinete, i venti, i rumori dei boschi, il mare, la durezza della terra e la bellezza della stessa. È nel mio cuore, scolpita e indelebile.

La feroce ma fredda rabbia (per l’impotenza e magari il rimpianto) di Gianni, lo smarrito e impacciato dolore di Maria, la presenza incombente di Francine: crede possibili tali sentimenti ancora ai nostri tempi, nei quali la velocità delle nostre vite rende ogni scalino umano di crescita più un inciampo che un’occasione per maturare?

Credo che il problema, perché è un problema, al giorno nostro è che siamo stati diseducati alla sopportazione della sofferenza, non fine a se stessa ma come necessario e certe volte ineluttabile, passaggio per il raggiungimento dei nostri traguardi crescita compresa. La sofferenza (della quale non ci si deve compiacere ovviamente) è una parte necessaria per prepararci alla separazione finale. Ma la cultura attuale ha diseducato particolarmente i giovani ed ha fatto un pessimo servizio perché la continua ricerca ad evitare la sofferenza devia certe volte la vita di alcuni di noi e ne varia le aspirazioni finali, abbassandone la qualità. Lo sport lo insegna: con allenamenti duri, con determinazione e tenacia si può aspirare a vincere. Senza si può aspirare semmai eventualmente forse certe volte quando le gare sono proprio facili a partecipare.

Una domanda, per concludere, che noi di ChronicaLibri rivolgiamo a ogni scrittore: potrebbe dirci quali sono (e per quale motivo) le sue tre parole preferite?
Preferite non so; importanti:
Morte. È la fine, oppure l’inizio? E’ un dilemma che mi intriga.
Speranza. Senza non si vive, senza non si butta il cuore oltre l’ostacolo ed allora si vive una vita noiosa
Donna. È tutto. Continuità, madre, moglie, piacere, folle incomprensione, totale coinvolgimento. È tutto e il contrario di tutto.

“I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni". ChrL intervista Luigi Farrauto

Giulio Gasperini
ROMA –
Non potevo certo esimermi dall’intervistare Luigi! Troppe le passioni comuni, dai viaggi ai suq dell’oriente; troppi gli stessi richiami ad attrarci, le stesse seduzioni a vincerci. Troppo appassionante è stata la lettura del suo romanzo per non avere mille e una domanda da rivolgergli; troppe curiosità che volevano, perentoriamente essere soddisfatte. Ne è venuto fuori un confronto amichevole e stimolante, come se due vecchi amici si fossero fermati, per un attimo, e si fossero ritrovati sotto un medesimo cielo, a distanza di tempo in quantificabile; e si volessero confidare a vicenda tutte le strade percorse. L’intervista è lunga, quasi una doppia confessione (e, come tale, non ho voluto tagliare neppure una virgola!); abbi la pazienza di arrivare sino in fondo. Perché non ne sarai per nulla deluso.

Io sono un adoratore di Oriana Fallaci. E lei scrisse un romanzo che, come il tuo, ha come palcoscenico privilegiato il Medio Oriente. In questo romanzo Oriana costruì la sua particolare teoria del caso e del destino. Nel tuo libro ugualmente queste due entità quasi mitiche hanno un ruolo fondamentale. È per caso la cultura mediorientale che, più di altre, pone irrimediabilmente di fronte a queste due grandi estensioni causali che riguardano l’uomo?
Caso e destino sono entità forse onnipresenti in ogni forma di cultura, tradizione, arte. Non so se in Medioriente queste due estensioni abbiano una valenza diversa, o tanto diversa dalla nostra. Non ho le competenze per dirlo con precisione.
Nel romanzo il mio rimando al destino è sempre a un “destino tangibile”, un destino modificabile come le impostazioni di una macchina fotografica. Dunque il destino di un’immagine diviene “il restare appeso a testa in giù, in attesa di un Giudizio Universale, e magari finire nel cestino in mille pezzi”, e il protagonista “è come un dio minore alle prese con esercizi di creazione”, come un padre che può decidere quale sarà il carattere di suo figlio…
Di sicuro fare esperienza del Medioriente espone al mito, al fascino della storia, perché sono ovunque, è impossibile per chi viaggia in quei paesi non notarlo. E come tutti i luoghi che sono anche ‘luoghi dell’anima’, il Medioriente porta a riflettere molto, forse anche su caso e destino, sul concetto di distanza e di sorte. Poi, credo sia il ‘destino’ di chi si innamora di quei luoghi, il doverli raccontare e condividere…
Nel descrivere lo scenario della narrazione ho cercato di evocare le atmosfere più magiche legate al termine “medioriente”. Quelle delle Mille e una Notte, un romanzo in cui il ‘destino’ è affidato al racconto: Sherazad vince la morte descrivendo mille vite, una dentro l’altra. Mille mondi. Quello è il mondo arabo a cui faccio riferimento: imperfetto e umano, atmosferico e sensazionale.
Riguardo alla Fallaci, non conosco la sua particolare teoria su caso e destino. Né ho letto i suoi romanzi ambientati in Medioriente. Oriana Fallaci ha raccontato per una vita, e con passione, quella terra che entrambi amiamo. Ma del mondo arabo abbiamo due visioni totalmente opposte. Quello che ho descritto io non è affatto lo stesso mondo, lei lo vedeva un po’ come una minaccia, per rimanere in tema ‘destino’… A mio avviso così facendo si alimenta il fuoco della paura, esotizzando il mondo arabo inutilmente. Io credo che il ‘destino’ dell’umanità sia creare ponti, e percorrerli in entrambe le direzioni. Onestamente non ho mai compreso questa sua paura di una “islamizzazione dell’Occidente”, mi piace vedere la contaminazione culturale come un valore, che può farci crescere tutti, creando significati nuovi e più ricchi. È un processo che dura da millenni…



Io non credo al destino. La trovo una presuntuosa maniera, dell’uomo, di scaricarsi di responsabilità: come se ci si volesse smarcare dal potere dell’iniziativa e dalla nostra capacità di saper contrastare le situazioni, sia avverse che alleate. Potresti esporci la tua personale visione del caso e del destino?
Sono d’accordo con te. Non ci credo nemmeno io, al destino; sono convinto che sia solo l’individuo l’artefice del proprio futuro. Però credo alle coincidenze. Di quelle il mondo è pieno. Di ‘casualità’. E se guardiamo la terra come una rete fittissima di connessioni, le coincidenze si spiegano facilmente. Niente metafisica o escatologia. Io sono una di quelle persone a cui si è inceppata la “sospensione del giudizio”. Non credo a niente che possa muoversi senza essere mosso. Non amo la fantascienza, nemmeno al cinema, non mi coinvolge.
‘Destino’ è una parola di cui si fa grande uso. Il romanzo ne è pieno. Nella mia mente, comunque, caso e destino differiscono solo per significante. “La fortuna è questione di geografia”.
Nella narrazione ‘caso’ e ‘destino’ hanno molta importanza. Sono le infinite combinazioni foto-chimiche di un’immagine, le infinite strade che si possono percorrere durante un viaggio. Sono le strade prese e quelle perse. È la consapevolezza che in un rullino ci siano concesse solo 36 foto.
Nella camera oscura, come nella finzione letteraria, non c’è limite, non c’è destino. C’è inventio e dispositio. Tecnica e sensiblità. Quello è il bello…


Questi tuoi personaggi, così distanti e manichei, a un certo punto si incontrano nella dimensione del viaggio, in quell’esperienza che Kapuscinski avrebbe definito del “varcare la frontiera”. Quanto ti sei divertito a immaginare i viaggi dei tuoi eroi? E ancora, quanto ti sei divertito (e ti diverti) tu in primis, a viaggiare?
Adoro Kapuscinski. Lui è uno che il mondo lo ha percorso per davvero, e con curiosità. Mi ha insegnato che il “Varcare la frontiera” non è solo un movimento del corpo. C’è un universo intero dentro quelle parole.
Il viaggio ‘vero’ mi dà dipendenza non perché mi diverte, ma perché mi arricchisce. Io visiterei qualunque paese del mondo, senza fermarmi mai, se solo potessi. Viaggiare soddisfa la mia curiosità, ma è una droga sottile ed efficace, difficile smettere.
I viaggi dei miei eroi li ho immaginati, li ho percorsi, li ho fotografati, li ho desiderati, per molti anni.
A piccole dosi. Progettare, descrivere e raccontare un viaggio immaginario, un viaggio di altri, è stato bizzarro. È un’attività emozionalmente complessa. Da un lato, la vertigine di libertà data dal poter raccontare, potenzialmente, di qualunque paese del mondo. Quindi in un certo senso ‘visitarli’. Anche quelli più sperduti, o in cui nessuno si sognerebbe mai di andare. Dall’altro lato, la frustrazione che evocare certi luoghi provoca, perché a furia raccontarli ci si affeziona, e ci si vuole andare davvero, e al più presto… Per cui si scende a compromessi, luoghi ed esperienze vissute e accessibili…
Scrivere di viaggi altrui è un po’ come lavorare per un’agenzia turistica: gratifica, apre l’immaginazione ma fa rosicare.


Come te, adoro i suq. Mi sono smarrito in quello di Gerusalemme, coi suoi quattro quartieri, sempre cogli occhi rivolti al cielo, ai colori, ai suoni e agli odori; mi son divertito in quello di Luxor, trattando per l’acquisto di due bellissime sciarpe di seta; ho mangiato il kebab più buono della mia vita in quello di Betlemme, in Palestina. Io cerco sempre di descrivere (e far capire) agli altri il fascino di questi luoghi, ma certe volte non son convinto di riuscirci. Tu come tenti, di solito, di stupire il prossimo nella scoperta di un luogo?L’unica soluzione è “mandarli a quel paese”. Nel vero senso della parola, intendo. Non c’è modo migliore, per comprendere le atmosfere del Medioriente, che andarci. Fare il passaporto e prendere un volo. A parole è difficile. Le foto un po’ aiutano, ma è l’esperienza diretta che colpisce. Il vento della Palestina, l’odore di Damasco, la vitalità del Cairo… le parole non bastano per raccontarli, non trovi? Occorre andarci di persona. Perdercisi dentro. Poi ne riparliamo. Per questo spero che il mio romanzo venga visto come un “invito al viaggio”, al valicare la frontiera…


Ps.: a Betlemme fanno anche l’hummus migliore di tutto il Medioriente!


Sai che la geografia sta letteralmente sparendo dai programmi scolastici? Come me provi un incontenibile moto di disgusto per queste infauste decisioni (io, tanto per dire, tengo appesa a una parete della mia stanza un enorme planisfero anticato della Terra)?
Sono contento che tu mi faccia questa domanda. La questione della geografia è preoccupante. Sono un appassionato di cartografia, sto facendo un dottorato sulle mappe e l’immagine della città, la mia è una sorta di perversione iconica per le mappe. Ne ho di ogni forma e colore, e sapere che faranno la fine dei vinili, dimenticati e schiacciati dalle tecnologie, mi rattristisce molto. Quando sfoglio un atlante provo le stesse sensazioni che si hanno guardando un animale in via di estinzione, destinato a diventare vintage e chissà pure un po’ chic.
A mio avviso il recente attacco alla geografia nelle scuole pubbliche è uno dei tanti simboli del degrado culturale che l’Italia sta vivendo negli ultimi anni. Mi piace come hai definito la tua reazione, “incontenibile moto di disgusto”. Ecco, i termini sono quelli. La geografia dovrebbe essere una conoscenza propedeutica a qualunque studio, ma nel trivio e quadrivio dell’Italia non c’è spazio per queste conoscenze. Ma se ci pensi la tecnica funziona. Meglio non sapere che quasi condividiamo più cose col mondo arabo che con gli inglesi, meglio lasciare le città mediorientali nel retro delle nostre mappe mentali, nella parte più nascosta possibile, così continueranno a farci sempre più paura; meglio ignorare chi ci sta attorno, meglio lasciare la ragione al suo sonno, così i mostri saranno sempre più avvincenti…
Mi rendo conto che la geografia non sia proprio il problema principale del nostro paese, però è l’ennesima frustrazione.
Nonostante il mondo sia sempre più a portata di mano di chiunque, nonostante ora sia possibile in qualunque momento ottenere informazioni su tutti i meandri del mondo, la conoscenza della geografia è diventata obsoleta, retrò. Gli unici posti che appartengono alle nostre mappe mentali sono vaghi scenari di guerra e bombe, villaggi vacanze tutti uguali e città di cui si ha letto qualcosa. Per questo motivo ho voluto dare tanta carica simbolica alle mie descrizioni del Medioriente. Volevo aggiungere un pezzo alla mappa mentale dei miei lettori. Come ogni mappa offrendo una visione parziale e mediata, ma per una volta dalla curiosità piuttosto che dalla paura. Ho messo il mio. Almeno ci ho provato…
Tornando alla geografia, la società moderna ci ha illusi di conoscere il mondo solo perché abbiamo le tecnologie più moderne per attingere a dati e informazioni, in ogni momento. Ma la conoscenza del mondo è altro. Il mondo è fatto di connessioni, di contaminazioni, di storie, di significati, difficilmente inferibili con l’iPhone. Non c’è niente attorno alla mappa di Google Earth consultabile anche seduti sul water. Hic sunt leones. Tutta arabia, quella…


Luigi, adesso una domanda che noi di ChronicaLibri rivolgiamo spesso agli scrittori: quali sono le tue tre parole preferite?
Ma intendi per suono o significato?
Per il significato “contaminazione”, “chilometri” e “oriente”
Per il suono la mia preferita è “sicché”, anche se non la uso mai, e dovrei.

Paolo Maccioni racconta "Buenos Aires troppo tardi"

Stefano Billi
Roma Intervistato da ChronicaLibri, lo scrittore cagliaritano Paolo Maccioni racconta ai lettori la sua passione per l’Argentina e alcune curiosità legate al suo romanzo “Buenos Aires troppo tardi”, pubblicato da Arkadia editore.



Cosa ha ispirato questo tuo libro “Buenos Aires troppo tardi” e, più in generale, queste pagine dedicate all’Argentina?

Mi ha ispirato principalmente la passione per la letteratura argentina, che ho sempre coltivato e che nel tempo è diventata una passione per l’Argentina in generale, rafforzata da un legame sentimentale che ho avuto in passato e dai ripetuti viaggi in Argentina.



Esiste un legame particolare tra te ed Eugenio, protagonista di questo romanzo? Tale legame rispecchia il rapporto che Eugenio ha con Eleuterio, il personaggio inventato dal protagonista di “Buenos Aires troppo tardi”?

Be’, direi che Eugenio è il mio alter-ego, quel me stesso che tempo fa ignorava la storia recente d’Argentina; l’ho tratteggiato volutamente sprovveduto e ignaro e all’inizio spensierato per poter farlo crescere nel corso del libro e renderlo sempre più consapevole.

Ma ovviamente, come sempre accade ai personaggi fittizi, anche Eugenio comincia a camminare con le sue gambe e ad affrancarsi dal modello originario.
Quanto ad Eleuterio a sua volta è l’alter-ego letterario di Eugenio, nel quale Eugenio proietta un se stesso idealizzato, ma viene abortito presto, perché irrompe la storia d’Argentina, quella vissuta, più urgente e dolorosa, a spazzar via la finzione.


“Buenos Aires troppo tardi”, tra le sue pagine, richiama la storia dell’Argentina della seconda metà del secolo scorso: in sottofondo si percepisce, in maniera assolutamente profonda, la volontà di ricordare un passato che, soprattutto per le popolazioni estere, rischia di essere dimenticato. Dunque, “Buenos Aires troppo tardi” vuole essere principalmente un romanzo storico?

Devo premettere che non era nelle mie intenzioni, né alla mia portata, scrivere un saggio. Tuttavia la storia recente dell’Argentina, col suo carico di dolore e sangue, mi ha investito in modo traumatico, proprio come accade al mio personaggio Eugenio.

Ho voluto condividere la mia esperienza formativa veicolandola nella forma narrativa che trovavo più congeniale e più fruibile: quella del romanzo.
In questo senso può essere considerato un romanzo storico, anche se non propriamente detto, giacché ho fatto largo ricorso agli anacronismi e ad elementi fantastici.
In fondo sia io che Eugenio siamo l’emblema dell’italiano, dell’europeo, e più in generale dell’occidentale che ben poco ha saputo dell’ultima dittatura militare argentina e quel poco lo ha appreso troppo tardi, come dice il titolo.


Quali sono gli autori che più hanno influenzato il tuo modo di scrivere?

Dal punto di vista della tecnica narrativa, diciamo così, mi sento particolarmente debitore di quella scrittura che ha in Antonio Tabucchi e massimamente in José Saramago i suoi modelli più alti.
Una prosa piana e franca, senza magniloquenze, ma ponderata, con il registro proprio della “deposizione al tribunale del lettore”, per usare parole di Tabucchi.
Perciò nel mio libro ho adottato la voce narrante del protagonista, che racconta in prima persona e al presente, mescola dialoghi immaginari a pensieri intimi e riflessioni di più ampio respiro.
Inoltre il mio romanzo abbonda di passi originali di Rodolfo Walsh (parecchi dei quali traduzioni inedite) che ho trascritto in forma di virgolettati attribuiti al personaggio Walsh (che nel corso del libro prende i nomi di Daniel Hernández, Rodol Fowalsh, Norberto Pedro Freire, ed altri).
Le parti in cui tale personaggio invece parla con la mia voce sono il frutto della ricerca di una prosa che cerca di somigliare a quella originaria di Rodolfo Walsh: asciutta e tagliente, tesa a raggiungere la maggior efficacia con la massima economia espressiva.
Insomma: avverto le influenze ma cerco di affrancarmi dai modelli, peraltro irraggiungibili, alla continua ricerca della mia voce personale.
Un cammino lungo e laborioso dove non esiste un “traguardo”, si può solo percorrere molta o poca strada.


Perché i nostri lettori dovrebbero leggere il tuo libro?

Perché la storia recente d’Argentina è un paradigma della storia mondiale del secondo Novecento, perché le derive come quella che ha conosciuto l’Argentina sotto l’ultima dittatura militare rischiano di ritornare sotto altre forme e in altri luoghi e allora bisogna avere gli strumenti per poterle riconoscere quando sono ancora in embrione. Il mio libro da solo non basta, ovviamente, ma può dare un piccolo contributo sul fronte della conoscenza della stagione della dittatura militare argentina.
Infine può essere un piccolo compendio per conoscere meglio l’Argentina e la sua ricchissima letteratura, anche al di là della storia della dittatura militare: spero di contagiare chi lo legge con la mia passione per l’Argentina e per Buenos Aires.

"Infinito edizioni": la vocazione del sociale. ChrL intervista Maria Cecilia Castagna

Giulio Gasperini
CASTEL GANDOLFO (Rm) – La nostra è un’epoca di grandi accelerazioni e sommovimenti sociali. Innegabilmente, la globalizzazione ci ha condotti verso un’era di benessere (o presunto tale) ma ha, allo stesso tempo, creato delle spaccature profonde nel tessuto sociale. In più, la grande diffusione e il sempre più incontrollato sviluppo dei mezzi di comunicazione ci hanno resi sempre più consapevoli di questi aspetti, sottoponendoci all’urgenza di un confronto continuo. Sicché gli alibi non tengono più, e ogni volta siamo costretti a confrontarci, sempre più nudamente, con tutte codeste problematiche importanti e non trascurabili, avendo come oggetto di riguardo proprio l’essere umano, in ogni sua possibile declinazione. La Infinito Edizioni ha scovato nel sociale la sua vocazione più profonda, la sua missione per rendere l’editoria non soltanto una “fabbrica” di libri, ma un motore propulsore di cambiamento e di maturazione sociale. Abbiamo intervistato Maria Cecilia Castagna, amministratrice della casa editrice che ha sede a Castel Gandolfo.

1. Qual è la proposta editoriale di Infinito?
La Infinito edizioni nasce come una realtà editoriale molto attenta a tematiche sociali, legate soprattutto ai temi dei diritti umani, dei migranti, dell’infanzia e delle donne. Ci interessa approfondire quegli argomenti che occupano le prime pagine dei quotidiani qualche giorno e che poi scompaiono fino a nuove, ma sempre vecchie, emergenze.

2. Un catalogo ricco di romanzi, inchieste, saggi e molto altro. Ma qual è il pubblico che volete raggiungere?
Ci piace incontrare le persone che amano approfondire, che sono alla ricerca di informazioni che altri mezzi di comunicazione, per superficialità, non danno. E per questo spaziamo nei generi dal saggio alla letteratura, ma sempre con il tema dell’approfondimento come base e obiettivo.

3. Autori emergenti accanto ad autoriaffermati del panorama italiano e internazionale, come mai questa scelta?
Ci piace scovare nuovi talenti, che ci danno poi soddisfazione (penso al lavoro di Gabriele Del Grande sui migranti o di Luca Leone sulla Bosnia Erzegovina) e allo stesso tempo avere in catalogo autori affermati a livello nazionale e internazionale, come ad esempio Andrea Camilleri, ci dà un onore e una spinta a fare sempre meglio.

4. Sempre meno libri venduti, sempre più case editrici: come vive la Infinito Edizioni questa continua “lotta”?
Cerchiamo di contrastare la crisi dell’editoria proponendo tematiche che si rivolgono a un pubblico interessato e, soprattutto, cercando di fare il maggior numero di incontri e presentazioni possibili dei nostri libri. Il contatto diretto tra autori e lettori, attraverso gli incontri, è quanto di meglio ci possa essere per una positiva crescita di tutti quanti. Abbiamo, infatti, tutti da imparare tanto.

Intervista a Minervino, dalla mostrificazione alle bellezze mozzafiato di una Calabria ancora carica di ardori e di nuove speranze

Alessia Sità
ROMA – Alcuni libri necessitano di un approfondimento, di una lente di ingrandimento puntata tra le righe del romanzo, per questo ChronicaLibri oggi propone l’intervista al professor Mauro Francesco Minervino, autore di “Statale 18” pubblicato da Fandango.
Che ruolo ha per lei la scrittura nell’esprimere un disagio?
Non credo che la scrittura (che può anche essere una buona cura per l’anima) debba curare il ‘disagio’ di chi scrive letteratura. Io non ho mai scritto un rigo per dare sfogo a un disagio personale, a qualcosa che appartiene alla mia psicologia individuale. Io scrivo per raccontare. Per provare a capire. Non da solo, ma insieme a chi legge. Parto sempre da un’esperienza, da un’urgenza di testimonianza e di confronto con ciò che vedo, con ciò che accade nella realtà. Anche se non escludo mai un mio punto di vista personale, non mi interessa limitare ciò che scrivo ad aspetti personali. Scrivere è sempre un atto di responsabilità che implica il rapporto di un sé con un altro, una forma congiuntiva, un incontro che unisce l’autore alla realtà, a persone diverse, alla verità del mondo. Scrivere è pur sempre tentare di dare una forma al caos, il tentativo di portare a ragione quello che la ragione rifiuta o nasconde. Per me raccontare persone e luoghi difficili, e tuttavia amati, di una Calabria che qualcuno già considera un pezzo d’Italia perduta, equivale a un rifiuto delle generalizzazioni e delle ovvietà mediatiche. Scrivo contro i pregiudizi che da lontano avvolgono la realtà del sud; il mio è un tentativo di fare chiarezza senza mai nascondere le nostre responsabilità collettive nei confronti di ciò che accade.
Cosa l’ha spinta a scrivere “Statale 18”?
I miei viaggi da pendolare su questa strada. Il fatto di vivere in un luogo così. L’idea che raccontare la strada oggi equivale a raccontare il sud nella sua parte più vera e problematica, meno letteraria. Su una strada come la Statale 18 vedi tutte le contraddizioni, la vita reale, che sempre di più è legata al movimento, a una mobilità esasperata e spaesante, a un’economia legata a forme di abuso e di violenza strisciante, sempre meno ancorata alla tradizione e a certe facili consolazioni del passato. Mi ha guidato l’idea che raccontando una strada che tutti conoscono il mio libro potesse aprire a una forma di ribellione, estetica, sentimentale e morale prima ancora che ‘politica’. Quello che vedevo, e che vedono tutti sulla Statale 18, mi colpisce ogni volta che questa strada mi accade di percorrerla. Qualcosa che offende e mortifica lo spirito e impoverisce la vita, la mia e quella di tutti. Un consumo folle di bellezze e di spazio. Il disprezzo per la cultura. Lo sfregio inarrestabile della natura e della storia. Tutto oggi si dispone sulla strada. Nessuno sembra accorgersene. Il fatto è che se cambia l’ambiente e il paesaggio, se cambia la qualità della terra e del mare, se viene avanti il brutto e il cemento conquista ogni spazio libero, diventiamo tutti più brutti e incivili, più poveri, più infelici, più mafiosi, anche se apparentemente questo si chiama ‘sviluppo’. Ma lo sviluppo non coincide con le case costruite, con le automobili che circolano, con la violenza che si insinua nei nostri rapporti sociali, con gli oggetti che compriamo negli ipermercati, con la corsa ai consumi di cui tutti siamo vittime.
Lei racconta e descrive apertamente ed in modo piuttosto chiaro i mali che affliggono la Calabria dalla Calabria, da uomo e da antropologo. La sua è una scelta coraggiosa. Ha mai incontrato difficoltà per questo?
Sì, pago un prezzo personale per essere un autore scomodo. Scomodo per il potere politico e per quello mediatico. Scomodo per quello che scrivo e per ‘come’ lo scrivo. Per i miei libri ho ricevuto importanti premi e riconoscimenti, anche internazionali, ma in Calabria sono stato oggetto di feroci campagne stampa, di diffamazione e di esclusioni (inconfessabili) che danneggiano la mia professione intellettuale e il ruolo che svolgo nel mio ambiente, che è quello dell’università, della cultura e dei giornali. Ma la mia scrittura, la mia libertà non la metto a disposizione di nessuno. Vado per la mia strada, ma resto qui. In questi anni, dopo che un maestro civile di quella che lui stesso chiamava “letteratura delle cose”, Enzo Siciliano, che per primo mi spinse a raccontare queste storie su Nuovi Argomenti, per il mio impegno di scrittore e di intellettuale ho avuto sostegno di personalità come Luigi De Magistris e Angela Napoli, di intellettuali come Gianni Vattimo e Gian Antonio Stella, fino a Roberto Saviano, che di Statale 18 in una recensione su “Tuttolibri” de “La Stampa”, ha scritto cose molto belle di cui lo ringrazio. I partiti, la politica, i calabresi che “contano”, i giornalisti, i colleghi? Ostracismo e una malcelata ostilità, invidie, mugugni e silenzi. Ma ci sono gli studenti, la gente che incontro, quelli che leggono i miei libri e li amano, e molti sono calabresi fuori dalla Calabria.
La “mostrificazione” di cui parla, c’è sempre stata o ha un’origine ben precisa?
Inizia nel dopoguerra con la ricostruzione, un periodo infinito di modificazioni ambientali e sociali, anche positive; penso alle infrastrutture necessarie, alle scuole, agli ospedali, ma anche all’origine di scempi, di facili distruzioni e di speculazioni spacciate per indispensabili opere di sviluppo. Una fase di espansione che da allora non si è più arrestata. Degenerazioni che hanno portato alla mostrificazione attuale del paesaggio che lo specchio di una metamorfosi antropologica che riguarda gli individui e la società, in Calabria e nel Sud. Ma ormai il discorso vale per tutta l’Italia.
Il pregiudizio che si ha del Sud, secondo lei, ha contribuito ad alimentare lo scempio e il degrado non solo paesaggistico, ma anche umano?
Certo, il sud, e i calabresi in particolare, vivono una specie di schizofrenia: per secoli sono stati gli altri a raccontarci e a giudicarci. Col tempo abbiamo assunto e interiorizzato punti di vista che sono sempre mediati dall’esterno. Perciò siamo facilmente inclini agli estremismi, siamo apocalittici o integrati, conformisti o ribellisti. Siamo ossessionati dal problema dell’identità. Oscilliamo tra il disprezzo per noi stessi e la difesa integralistica di tratti regressivi, con l’esaltazione acritica di ogni cosa che ci riguardi. Così abbiamo smesso di osservarci, di descriverci, di tracciare le nostre rappresentazioni e i nostri racconti. E anche di prenderci cura del paesaggio, della natura, della terra, del mare, delle case. La Calabria è una terra di sconfitte silenziose e di violenze eclatanti, di ribelli e di ipocriti, di gente in fuga o rassegnata al peggio. Oggi è da questa dittatura degli opposti che si deve smarcare se vogliamo pensarci moderni e davvero “diversi”: riprendiamo i nostri racconti, ribaltiamoli sul mondo; critiche e autocritiche non lasciamole più agli altri. Amare i luoghi e farne nuovamente ‘dimora’ prendendosene cura, ritornare a essere comunità, non c’è alternativa. La Calabria e i calabresi devono misurarsi con l’autocritica, devono smarcarsi dall’ossessione della ‘calabresità’, da un blocco culturale che è un limite e un regalo fatto a tutti quelli che vogliono mantenere le cose come stanno.
La descrizione che lei fa della sua lezione di antropologia tenuta a Catanzaro è molto eloquente. Ma perché i giovani di oggi, nati e cresciuti in Calabria, continuano a sentirsi estranei? Perché “sembrano essere tutti di passaggio in Calabria”?
Credo che molte responsabilità ricadano sulle generazioni precedenti. Ma oggi spetta ai giovani impegnarsi per il cambiamento. In Calabria dobbiamo tutti ripartire da una serena consapevolezza che il legame con la propria terra non è un atto di fede acritico ma un passaggio necessario verso la consapevolezza. Non è fuggendo che si diventa adulti. E la dimensione del “lontano” ormai nel nostro mondo globale è solo illusoria, fatta apposta per restare ‘provinciali’. Non c’è un altro mondo migliore fuori dalla Calabria. Siamo già nel mondo, e sta a noi invece creare qui le condizioni migliori che cerchiamo altrove, con un nuovo senso civico e nuovi patti di comunità. Il compito della scrittura civile deve essere anche quello di risvegliare i giovani e le coscienze assopite.
Nonostante il suo splendido panorama sul mare, la Statale 18 porta in sé una sorta di inquietudine. Secondo lei è un’inquietudine che solo chi ha vissuto quei luoghi può capire?
No credo che il successo del libro, come anche quello del mio precedente “La Calabria brucia”, dipenda dal fatto che attraverso le narrazioni che riguardano la mia regione io riesca a raccontare come antropologo e scrittore, una condizione che travalica confini e luoghi specifici e che appartiene a una dimensione umana e civile della nostra vita contemporanea. Il degrado è la cifra che unifica tutta l’Italia di adesso. La Calabria è in fondo il laboratorio avanzato di un’Italia che assomiglia sempre più a queste coste sfrangiate, a quest’onda di cemento che in Calabria sembra infinita e travolge e consuma ogni cosa. Paesaggio, cultura, legalità, umanità. E’ così che stiamo diventando tutti più moderni. Il corrispettivo della Statale 18 oggi lo trovi ovunque in Italia; sull’asse del cosiddetto “bilanciere veneto”, sulle coste turistizzate della Sicilia come sulla riviera Ligure da Rapallo in poi, ovunque dove viene meno il senso della civiltà e della bellezza. C’è un senso di smarrimento e di inquietudine sempre più esportabile e universale, in Italia e nel mondo occidentale.
Perché in Calabria “i desideri fanno in fretta a passare e diventano ricordi”?
E’ uno dei paradossi poetici, ma anche il sintomo di una condizione reale, che ho inserito nella prosa narrativa di “Statale 18”. E’ un invito a resistere, a prolungare gli sforzi che ogni desiderio deve compiere per diventare atto. In Calabria c’è chi ristagna nella nostalgia per il passato, nell’immobilità rassegnata. Io credo invece che la nostalgia debba essere trasformata in una forma di passione attiva, qualcosa che serva come il sogno per dare battaglia nel presente. In fondo come diceva Walter Benjamin “solo il fare è un mezzo per sognare, mentre il contemplare è solo un mezzo per rimanere desti”. La letteratura e la poesia illuminano sempre un piano di realtà utopiche ma possibili. Un altro straniero George Gissing, lo scrittore vittoriano, il viaggiatore trasognato e solitario che scrisse della Calabria della fine dell’Ottocento, povera, umile ma ancora carica di ardori e di nuove speranze, piena di grazia popolare e di bellezze mozzafiato, scrisse che “qui è più bello vivere”. Non dovremmo dimenticare mai parole come queste qui al Sud e in Calabria.
Per completare il quadro della situazione, pensa di scrivere qualcosa anche sulla Statale 106 Jonica, un altro tratto di strada tristemente noto per la situazione di precarietà in cui versa da troppo tempo?
No, lo farà qualcun altro se ne ha voglia. La strada è un tema interessante, ma non ho scelto di ‘specializzarmi’. Io scrivo solo i libri che un certo tipo di ricordi, di percezioni e di esperienze mi impongono di scrivere. E il prossimo libro sarà un romanzo sugli anni ’90, il decennio cruciale della mia vita d’uomo e un periodo che rappresenta la fine di certi tempi di attese, di passioni e di grandi speranze per una generazione come la mia. L’inizio di una presa d’atto della realtà e della vita così com’è, ma per cui vale ancora la pena di battersi, per quanto dura e ostile sia la realtà di oggi.
Tre parole per definire il suo libro
Doloroso, sincero, bello. Parole che quando si ama sono indispensabili per dire la verità.