Stefano Billi
Roma – L’immaginario collettivo di ogni società spesso si contraddistingue per una spiccata propensione al pregiudizio, come ad esempio avviene quando si parla di coloro che, per professione, sono chiamati ad amministrare la giustizia.
E così, ragionando sugli avvocati, li si raffigura come artisti della verbosità, propensi al litigio e assolutamente lontani da ogni minima forma di verità.
Per fugare questa volgare credenza, basterebbe ricordare il fulgido esempio di Giorgio Ambrosoli o di Fulvio Croce, entrambi martiri per la legalità: ma spesso si dimentica la storia facilmente.
Ancora, i giudici vengono spesso indicati come soggetti rapiti dalla “sindrome della condanna”, quasi che una forza misteriosa li avesse investiti della possibilità di scegliere cosa sia, in Terra, il Bene e il Male.
In realtà, il sacrificio di sangue di eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino risuonerà a lungo per risvegliare la società, nel malaugurato caso in cui si scordasse cosa significhi “servire lo stato”.
Dunque è possibile amministrare bene la giustizia, e fugare quel pregiudizio popolare che comunque non si può non riconoscere essere fondato (a chi ritenesse il contrario, vale la pena suggerire una “passeggiata” nelle aule dei tribunali dello stivale)
Ma una classe di buoni amministratori non cresce dal nulla; è necessario istruirla e dotarla degli strumenti indispensabili per svolgere quella che sicuramente è la professione più difficile al mondo: l’applicazione giusta delle regole.
In tal senso, diviene illuminante uno scritto, sicuramente datato ma dal pregio inestimabile, come il libello di Alfonso de’ Liguori, intitolato “Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e rei”.
Il testo, ormai quasi introvabile e risalente alla seconda metà del XVIII secolo, è pubblicato dalla casa editrice palermitana Sellerio e si presenta come una collezione di scritti di Alfonso de Liguori, tutti riguardanti il tema dell’etica nell’ambito dell’amministrazione della giustizia.
L’opera, che non dovrebbe mai mancare dagli scaffali delle biblioteche personali di ogni giurista (o studente in tale materia), può essere considerata come un vademecum morale per quelle figure professionali che, nella vita quotidiana, sono chiamate a giudicare il comportamento di altri uomini, o a difenderlo, o ad incriminarlo.
Infatti. è indispensabile che il giudice, l’avvocato o il pubblico ministero, oltre alle conoscenze giuridiche, abbiano approfondito e assorbito nozioni sull’etica e sui valori professionali.
Perché si può amministrare la legge in maniera “giusta”, soltanto qualora si abbia immerso il proprio animo nell’apprendimento di cosa sia giusto.
Sebbene Alfonso de Liguori fosse ispirato da un profondo sentimento religioso, comunque le sue riflessioni e i suoi insegnamenti meritano di essere metabolizzati in maniera sincera da ogni cultore del diritto.
Anche perché, se malauguratamente le pagine del de Liguori divenissero lettera morta, il risultato di ciò sarebbe un detrimento culturale di inimmaginabili proporzioni , a danno dell’umanità, che ha bisogno di servitori fedeli della Giustizia.
Lo stile narrativo della trattazione, pur sicuramente datato, risulta tuttavia scorrevole ed agevolmente comprensibile; l’obiettivo dell’autore era infatti quello di scrivere per poter essere letto e compreso da tutti, nella più alta e nobile finalità di insegnare e trasmettere valori a quanti più uomini possibili.
“Degli obblighi de’ giudici, avvocati, accusatori e rei” è un’opera brillante, così preziosa che andrebbe assaporata continuamente, scoprendo tutti quegli aspetti che soltanto nelle letture successive alla prima possono essere appresi.
Allora proprio la testimonianza di Alfonso de Liguori può essere il volano per un cambiamento sociale e valoriale che, oggigiorno, si presenta come inevitabile.