Giulio Gasperini
ROMA – La memoria pesa; perché è colma di responsabilità disertate, di omertà vergognose, di sgradevoli rapporti tra cause ed effetti. Oggi è una giornata della memoria: dopo quella del 27 gennaio, il Giorno della memoria per antonomasia oramai, il 10 febbraio si è legiferato (anche se di legge non ce ne sarebbe dovuto esser bisogno) che sia il Giorno del ricordo. La dicitura è lievemente diversa, ma la sostanza non muta. È un ricordo soprattutto italiano, d’un paese che è uscito più ferito dagli anni seguiti all’armistizio, che non da quelli belligeranti: un’Italia che ha patito più nel farsi che nel mantenersi. Da quel 2004 numerose pubblicazioni son fiorite, per tentare di far luce su una piega della nostra storia che, per diverse ragioni, era stata dimenticata; o avevano indotto a dimenticarla (dipende dai punti di vista). L’ultima ricostruzione storica è “I testimoni muti”, di Diego Zandel (Mursia, 2011). Zandel dà al ricordo la veste di rievocazione fanciullesca (e romanzata): un po’ quel che I sentieri dei nidi di ragno di Calvino fu per la lotta di Resistenza. Perché le prospettive narrative son importanti, sono fondamentali: permettono di supplire a tutto quel che la storia ufficiale tace; e a tutto quello a cui la storia, prona, acconsente.
Diego Zandel – bambino che diventa narratore – è fiumano; o meglio, i suoi genitori erano fiumani, ché lui nacque nel 1948 a Servigliano, un campo profughi nelle Marche, come tanti ne nacquero in quei tristi anni post-bellici, quando non si sapeva che farsene di tutti quegli italiani che, dopo la firma del trattato di Parigi (10 febbraio 1947, ricordiamo le date, ché sono importanti, soprattutto in questo 2011!), da Fiume, dall’Istria, dalla Dalmazia, in fuga da Tito e dalla violenza dei suoi partigiani, si riversarono in un’Italia che, per anni, avevano impossibilmente chiamato ‘patria’ ma per la quale, alla prova dei fatti, erano più un peso che una risorsa, più un motivo di imbarazzo che un vanto di nuova nazione da poco saldatasi.
Diego Zandel è fiumano: coscientemente nutre il personale vanto e l’orgoglio d’appartenere all’identità istriana e fiumana che, per lustri e lustri, han saputo, al di là di tutto, farsi ricettacolo e vaso d’elezione di diverse etnie, miscelandole e amalgamandole, sapendosi edificare sempre un po’ migliore. Sicché non è un caso che I testimoni muti sia edificato tramite l’allacciarsi e il l’armonizzarsi di racconti vari, all’apparenza inconciliabili, insanabili: parlano un po’ tutti, tutti espongono la propria verità, in una sorta di competizione per il raggiungimento di quella che, sola, tra tutte le altre, può chiamarsi tale: verità.
Quel che conta, però, è che tutti siano testimoni; muti, perché per troppo tempo le loro storie son rimaste soffocate in codesti cadaveri così crudelmente martirizzati, in codeste gole secche, sature della terra delle foibe.
ROMA – La memoria pesa; perché è colma di responsabilità disertate, di omertà vergognose, di sgradevoli rapporti tra cause ed effetti. Oggi è una giornata della memoria: dopo quella del 27 gennaio, il Giorno della memoria per antonomasia oramai, il 10 febbraio si è legiferato (anche se di legge non ce ne sarebbe dovuto esser bisogno) che sia il Giorno del ricordo. La dicitura è lievemente diversa, ma la sostanza non muta. È un ricordo soprattutto italiano, d’un paese che è uscito più ferito dagli anni seguiti all’armistizio, che non da quelli belligeranti: un’Italia che ha patito più nel farsi che nel mantenersi. Da quel 2004 numerose pubblicazioni son fiorite, per tentare di far luce su una piega della nostra storia che, per diverse ragioni, era stata dimenticata; o avevano indotto a dimenticarla (dipende dai punti di vista). L’ultima ricostruzione storica è “I testimoni muti”, di Diego Zandel (Mursia, 2011). Zandel dà al ricordo la veste di rievocazione fanciullesca (e romanzata): un po’ quel che I sentieri dei nidi di ragno di Calvino fu per la lotta di Resistenza. Perché le prospettive narrative son importanti, sono fondamentali: permettono di supplire a tutto quel che la storia ufficiale tace; e a tutto quello a cui la storia, prona, acconsente.
Diego Zandel – bambino che diventa narratore – è fiumano; o meglio, i suoi genitori erano fiumani, ché lui nacque nel 1948 a Servigliano, un campo profughi nelle Marche, come tanti ne nacquero in quei tristi anni post-bellici, quando non si sapeva che farsene di tutti quegli italiani che, dopo la firma del trattato di Parigi (10 febbraio 1947, ricordiamo le date, ché sono importanti, soprattutto in questo 2011!), da Fiume, dall’Istria, dalla Dalmazia, in fuga da Tito e dalla violenza dei suoi partigiani, si riversarono in un’Italia che, per anni, avevano impossibilmente chiamato ‘patria’ ma per la quale, alla prova dei fatti, erano più un peso che una risorsa, più un motivo di imbarazzo che un vanto di nuova nazione da poco saldatasi.
Diego Zandel è fiumano: coscientemente nutre il personale vanto e l’orgoglio d’appartenere all’identità istriana e fiumana che, per lustri e lustri, han saputo, al di là di tutto, farsi ricettacolo e vaso d’elezione di diverse etnie, miscelandole e amalgamandole, sapendosi edificare sempre un po’ migliore. Sicché non è un caso che I testimoni muti sia edificato tramite l’allacciarsi e il l’armonizzarsi di racconti vari, all’apparenza inconciliabili, insanabili: parlano un po’ tutti, tutti espongono la propria verità, in una sorta di competizione per il raggiungimento di quella che, sola, tra tutte le altre, può chiamarsi tale: verità.
Quel che conta, però, è che tutti siano testimoni; muti, perché per troppo tempo le loro storie son rimaste soffocate in codesti cadaveri così crudelmente martirizzati, in codeste gole secche, sature della terra delle foibe.