Anteprima: leggi il primo capitolo di "Presagi di tempesta", tra qualche giorno in libreria per Fanucci

ROMA – Giornata piena di novità è quella del mercoledì di Leggendo Crescendo. Infatti, la rubrica di ChronicaLibri dedicata alle letture dei più piccoli ospita anche nel pomeriggio il primo capitolo di un romanzo in libreria tra qualche giorno per Fanucci Editore. Ora è la volta di “Presagi di tempesta” il dodicesimo capitolo della famosissima saga La ruota del tempo, creata da Robert Jordan e Brandon Sanderson.

Prologo
Il significato della tempesta
Renald Fanwar sedeva sotto il portico, riscaldando la robusta
sedia di quercia nera intagliata per lui da suo nipote due anni prima. Fissava il nord.
E le nubi nere e argento. Non le aveva mai viste così prima d’ora. Ricoprivano l’intero
orizzonte verso nord, alte nel cielo. Non erano grigie. Erano
nere
scantinato a mezzanotte. Con lampi di luce argentea che li attraversavano
e fulmini a cui non seguiva alcun suono.


L’aria era densa. Densa per gli odori di polvere e terra. Di foglie
secche e pioggia che si rifiutava di cadere. Era giunta la
primavera. Eppure i raccolti non crescevano. Nemmeno un
germoglio aveva osato far capolino dal terreno.
Si alzò con lentezza dalla sedia, col legno che scricchiolava
e il mobile che dondolava sommessamente dietro di lui, e si
diresse al limite del portico. Masticò il cannello della sua pipa,
anche se ormai era spenta. Non riusciva a decidersi a riaccenderla.
Quelle nuvole lo paralizzavano. Erano così nere. Come
il fumo di un fuoco di stoppie, solo che nessun fuoco del genere
emanava un fumo che si levava così in alto nell’aria. E cosa
dire delle nuvole argento? Sporgevano tra quelle nere, come
punti in cui nel metallo incrostato di fuliggine spiccano parti
di acciaio lucidato.
Si sfregò il mento, abbassando lo sguardo verso il suo prato.
Un piccolo recinto imbiancato racchiudeva un appezzamento
di erba e arbusti. Gli arbusti erano morti ora, fino all’ultimo.
Non avevano retto all’inverno. Presto avrebbe dovuto
estirparli. E l’erba… be’, erano ancora solo stoppie invernali.
Non era spuntato nemmeno un filo verde.
Un rombo di tuono lo scosse. Puro, netto, come un fragoroso
cozzare di metallo contro metallo. Sbatacchiò le finestre
della casa, scosse le assi del portico e parve riverberarsi nelle
sue stesse ossa.
Fece un balzo all’indietro. Quella saetta aveva colpito lì vicino…
forse nella sua stessa proprietà. Fremeva dalla voglia di
andare a ispezionare il danno. I fulmini potevano provocare
incendi in grado di mandare in rovina un uomo, bruciando
tutte le sue terre. Quassù fra le Marche di Confine c’erano così
tante cose facilmente infiammabili: erba secca, ciottoli secchi,
sementi secche.
Ma le nubi erano ancora distanti. Quella saetta non potevaessere caduta sulla sua proprietà. I nuvoloni neri e argento si
amalgamavano e ribollivano, alimentandosi e consumandosi
a vicenda.
Chiuse gli occhi, calmandosi e inspirando a fondo. Si era
forse immaginato quel tuono? Stava iniziando a vaneggiare,
come lo scherniva sempre Gaffin? Aprì gli occhi.
E le nubi erano proprio lì, sopra la sua casa.
Era come se fossero venute avanti all’improvviso, con l’intenzione
di colpire mentre lui distoglieva lo sguardo. Ora dominavano
il cielo, estendendosi per parecchia distanza in ogni direzione,
massicce e opprimenti. Poteva quasi sentire il loro peso
schiacciare l’aria attorno a sé. Trasse un respiro carico di improvvisa
umidità e sentì del sudore solleticargli la fronte.
Quelle nubi turbinarono, cumuli scuri color nero e argento
scossi da lampi bianchi. Tutt’a un tratto ribollirono verso il
basso, come l’imbuto di un tornado che veniva a prenderlo.
Cacciò un urlo, sollevando una mano come farebbe un uomo
davanti a una luce accecante. Quell’oscurità. Quella sconfinata,
soffocante oscurità. Lo avrebbe preso. Lo sapeva.
E poi le nubi scomparvero.
La sua pipa colpì le assi del portico con un lieve schiocco,
gettando uno spruzzo di tabacco bruciato sui gradini. Non si
era reso conto di averla lasciata andare. Renald esitò, guardando
il cielo azzurro ora vuoto, rendendosi conto che stava
rabbrividendo per nulla.
Le nubi erano di nuovo all’orizzonte, lontane circa quaranta
leghe. Rintronavano in modo sommesso.
Raccolse la pipa con una mano tremante, chiazzata dall’età
e scurita da anni passati al sole. È solo uno scherzo della tua
mente, Renald, si disse. Stai uscendo di testa, certo come due
più due fa quattro.
Era sulle spine per via del raccolto. Quello lo metteva sulle
spine. Anche se con i ragazzi usava parole ottimistiche, non era
naturale e basta. Ormai sarebbe dovuto germogliare qualcosa.
Aveva coltivato quella terra per quarant’anni! L’orzo non ci
metteva molto a germogliare. Che fosse folgorato, no che non
ci metteva molto. Cosa stava succedendo al mondo di questi
tempi? Non ci si poteva fidare che le piante germogliassero, e
le nuvole stessero dove avrebbero dovuto.
Si costrinse a rimettersi a sedere sulla sua sedia, le gambe
che gli tremavano. Eh già, sto diventando vecchio…, pensò.
Aveva lavorato come agricoltore per tutta la sua vita. Non
era facile nelle Marche di Confine, ma se lavoravi sodo, potevi
ottenere una vita prospera coltivando raccolti resistenti. ‘Un
uomo ha tanta fortuna quanti semi ha nel campo’aveva sempre
detto suo padre.
Be’, Renald era uno degli agricoltori più prosperi della zona.
Tanto da comprare le due fattorie accanto alla sua e da poter
portare al mercato trenta carri ogni autunno. Ora aveva sei
bravi uomini a lavorare per lui, che aravano i campi e tenevano
in buono stato gli steccati. Non che ogni giorno non dovesse
calarsi nel letame e mostrare loro cosa voleva dire coltivare
per bene. Non potevi lasciare che un po’ di successo ti rovinasse.
Sì, aveva lavorato la terra, vissuto la terra, come suo padre
era sempre solito dire. Comprendeva il tempo atmosferico
meglio di chiunque altro. Quelle nubi non erano naturali. Rintronavano
piano, come ringhi animali in una notte buia. In attesa.
In agguato nei boschi circostanti.
Sobbalzò a un nuovo boato di tuono che parve troppo vicino.
Quelle nubi erano lontane quaranta leghe? Era questo che aveva
pensato? Ora che le esaminava, gli pareva che fossero a dieci.
«Non metterti in testa strane cose» borbottò fra sé. La sua
voce gli dava una sensazione buona. Reale. Era bello sentire
qualcosa di diverso da quel rombo e dall’occasionale cigolio
delle imposte al vento. Non doveva essere in grado di sentire
Auaine all’interno, intenta a preparare la cena?
«Sei stanco. Tutto qua. Stanco.» Frugò nella tasca del suo
farsetto e tirò fuori il portatabacco.
Un debole rimbombo provenne da destra. Sulle prime, immaginò
che fosse il tuono. Però questo rimbombo era troppo
stridulo, troppo regolare. Non era un tuono. Erano ruote in
movimento.
E infatti un grosso carro tirato da un bue sormontò la collina
di Mallard, appena a est. Era stato Renald stesso a darle quel
nome. Ogni collina che si rispetti ha bisogno di un nome. La
strada era chiamata strada di Mallard. Perciò perché non dare
lo stesso nome anche alla collina?
Si sporse in avanti sulla sedia, ignorando di proposito quelle
nuvole mentre strizzava gli occhi verso il carro, cercando di
distinguere il volto del carrettiere. Thulin? Il fabbro? Cosa stava
facendo, come poteva guidare un carro tanto carico da toccare
il cielo? Sarebbe dovuto essere al lavoro sul nuovo aratro
di Renald!
Anche se era snello per il mestiere che faceva, Thulin era comunque
muscoloso il doppio di qualunque bracciante. Aveva
i capelli scuri e la pelle abbronzata di uno Shienarese, e teneva
il volto rasato secondo la loro moda, ma non portava il
codino. La famiglia di Thulin poteva far risalire le proprie origini
fino ai guerrieri delle Marche di Confine, ma lui stesso era
solo un semplice campagnolo come il resto di loro. Gestiva la
fucina a Oak Water, cinque miglia a est. Renald aveva giocato
parecchie partite di sassolini con il fabbro durante le sere invernali.
Thulin stava invecchiando: non aveva visto tanti anni
quanto Renald, ma gli ultimi inverni lo avevano indotto ad accennare
al ritiro. Quello del fabbro non era un mestiere per
vecchi. Ovviamente non lo era nemmeno quello del coltivatore.
Chissà se esistevano dei mestieri per vecchi.
Il carro di Thulin si avvicinò per la strada in terra battuta,
giungendo presso il prato recintato di bianco di Renald. Questo
sì che è strano, pensò l’agricoltore. Dietro il carro procedeva
una fila ordinata di animali: cinque capre e due vacche da
latte. Stie di polli dalle penne nere erano legate all’esterno del
carro, mentre il pianale stesso era stracolmo di mobili, sacchi e
barili. La giovane figlia di Thulin, Mirala, sedeva a cassetta con
lui, accanto a sua moglie, una donna dai capelli dorati originaria
del Sud. Era sposata con Thulin da venticinque anni, ma Renald
pensava ancora a Gallanha come ‘quella ragazza del Sud’.
Su quel carro c’era l’intera famiglia, con i loro migliori animali
al seguito. Era ovvio che si stavano trasferendo. Ma dove?
In visita a dei parenti, forse? Lui e Thulin non giocavano
una partita a sassolini da… oh, ormai erano tre settimane. Non
era certo tempo di visite, con l’avvento della primavera e la
fretta della semina. Qualcuno avrebbe dovuto riparare gli aratri
e affilare le falci. Chi l’avrebbe fatto se la forgia di Thulin si
fosse raffreddata?
Renald infilò un pizzico di tabacco nella sua pipa mentre
Thulin arrestava il carro accanto alla sua proprietà. Il fabbro
snello e brizzolato porse le redini a sua figlia, poi scese dal carro,
con i piedi che sollevarono sbuffi di polvere nell’aria quando
colpirono il terreno. Dietro di lui la tempesta distante ribolliva
ancora.
Thulin aprì il cancello del recinto, poi si diresse verso il portico.
Pareva distratto. Renald aprì la bocca per salutarlo, ma fu
Thulin a parlare per primo.
«Ho seppellito la mia incudine migliore nel vecchio campo
di fragole di Gallanha, Renald» disse il fabbro. «Ti ricordi dov’è,
vero? Ci ho messo anche i miei attrezzi migliori. Sono ben
ingrassati e si trovano all’interno del mio forziere più resistente,
foderati per tenerli all’asciutto. Questo dovrebbe impedire
che si arrugginiscano. Per un po’, almeno.»
Renald chiuse la bocca, tenendo la sua pipa mezza piena.
Se Thulin stava seppellendo la sua incudine… be’, significava
che non aveva intenzione di tornare indietro per un bel po’.
«Thulin, cosa…»
«Se non torno,» disse Thulin, lanciando un’occhiata verso
nord «dissotterreresti le mie cose e faresti in modo di occupar-
tene? Vendile a qualcuno che ci tenga, Renald. Non vorrei che
fosse uno qualunque a battere su quell’incudine. Mi ci sono
voluti vent’anni per racimolare quegli attrezzi, sai?»
«Ma Thulin!» farfugliò Renald. «Dove stai andando?»
Thulin si voltò di nuovo verso di lui, appoggiando un braccio
sulla ringhiera del portico, con un’aria solenne negli occhi
castani. «C’è una tempesta in arrivo» disse. «Perciò ho pensato
che era meglio dirigermi a nord.»
«Una tempesta?» chiese Renald. «Quella all’orizzonte, intendi?
Thulin, pare brutta – ah, sì, che le mie ossa siano folgorate
– ma non ha senso scappare. Abbiamo avuto brutte tempeste
in precedenza.»
«Non come questa, vecchio amico» disse Thulin. «Questo
non è il genere di tempesta che si possa ignorare.»
«Thulin?» chiese Renald. «Di cosa stai parlando?»
Prima che lui potesse rispondere, Gallanha lo chiamò dal
carro. «Gli hai detto delle pentole?»
«Ah,» disse Thulin «Gallanha ha lucidato quelle pentole col
fondo di rame che a tua moglie sono sempre piaciute. Sono sul
tavolo in cucina che aspettano solo Auaine, se vuole andarle a
prendere.» Detto questo, Thulin fece un cenno col capo a Renald
e s’incamminò verso il carro.
Renald sedette stupefatto. Thulin era sempre stato un tipo
schietto: preferiva dire quello che gli passava per la testa, poi
andare avanti. Era parte di quello che a Renald piaceva di lui.
Ma il fabbro poteva anche passare attraverso una conversazione
come un macigno che rotolava in mezzo a un gregge di
pecore, lasciando chiunque sbalordito.
Renald balzò in piedi, lasciando la sua pipa sulla sedia e seguendo
Thulin attraverso il prato e poi fino al carro. Maledizione,
pensò Renald, guardando verso i lati e notando di
nuovo l’erba marrone e gli arbusti secchi. Aveva lavorato sodo
su quel prato.
Il fabbro stava controllando le stie dei polli legate ai fianchi
del suo mezzo. Renald lo raggiunse e allungò una mano verso
di lui, ma Gallanha lo distrasse.
«Ecco, Renald» disse dalla cassetta. «Prendi queste.» Gli
porse un cestino pieno di uova. Una ciocca di capelli dorati le
era sfuggita dalla crocchia. Renald allungò la mano per pren-
dere il cesto. «Dalle ad Auaine. So che siete a corto di galline
per via di quelle volpi dello scorso autunno.»
Renald prese il cestino di uova. Alcune erano bianche, altre
brune. «Sì, ma dove state andando, Gallanha?»
«A nord, amico mio» rispose Thulin. Superò Renald e gli
mise una mano sulla spalla. «Suppongo che verrà radunato
un esercito. Avranno bisogno di fabbri.»
«Per favore» disse Renald, facendo un gesto col canestro di
uova. «Almeno fermatevi qualche minuto. Auaine ha appena
infornato del pane, una di quelle grosse pagnotte al miele che
ti piacciono. Possiamo discuterne durante una partita a sassolini.»
Thulin esitò.
«Faremo meglio a muoverci» disse Gallanha in tono sommesso.
«Quella tempesta sta arrivando.»
Thulin annuì, poi salì sul carro. «Magari potresti venire a
nord anche tu, Renald. Se lo fai, portati tutto quello che puoi.»
Fece una pausa. «Te la cavi abbastanza con gli attrezzi da poter
fare qualche lavoretto, perciò prendi le tue due falci migliori
e convertile in alabarde. Le tue due falci migliori; non economizzare
con qualcosa che vada quasi bene o abbastanza
bene. Prendi le migliori, perché sono le armi che userete.»
Renald si accigliò. «Come sai che ci sarà un esercito? Thulin,
maledizione, non sono certo un soldato!»
Thulin proseguì come se non avesse udito quei commenti.
«Con un’alabarda puoi tirar giù qualcuno da cavallo e infilzarlo.
E, ora che ci penso, potresti prendere le falci meno buone e
farci un paio di spade.»
«E cosa ne so io sul fare una spada? O su come usarla, se è
per quello…»
«Puoi imparare» disse Thulin, voltandosi verso nord. «Saranno
tutti necessari, Renald. Tutti quanti. Stanno venendo
per noi.» Tornò a guardare Renald. «Una spada non è così difficile
da fare. Prendi la lama di una falce e la raddrizzi, poi ti
trovi un pezzo di legno che faccia da guardia, per impedire
che la lama del nemico scivoli giù e ti tagli la mano. Perlopiù
userai cose che hai già.»
Renald sbatté le palpebre. Smise di porre domande, ma
non poteva fare a meno di pensarle. Si ammucchiavano nella
sua testa come bestiame che cercava di passare a forza attraverso
un unico cancello.
«Porta tutto il tuo bestiame, Renald» disse Thulin. «Lo
mangerai – o lo mangeranno i tuoi uomini – e ti servirà il latte.
E comunque sia, ci saranno uomini con cui potrai commerciare
con manzo o montone. Il cibo scarseggerà, considerando
tutto quello che si sta guastando e le riserve invernali quasi
esaurite. Porta tutto quello che hai. Fagioli secchi, frutta secca,
tutto quanto.»
Renald si sporse all’indietro contro il cancello della sua proprietà.
Si sentiva debole e fiacco. Infine si costrinse a porre una
sola domanda. «Perché?»
Thulin esitò, poi si allontanò dal carro, appoggiando di
nuovo una mano sulla spalla di Renald. «Mi spiace essere così
brusco. Io… be’, tu sai come me la cavo con le parole, Renald.
Non so cosa sia quella tempesta. Ma so cosa significa. Non ho
mai tenuto in mano una spada, ma mio padre ha combattuto
nella guerra Aiel. Sono un uomo delle Marche di Confine. E
quella tempesta significa che la fine si avvicina, Renald. Dovremo
essere lì quando arriverà.» Si fermò, poi si voltò e guardò
a nord, osservando quelle nubi che si ammassavano come
un contadino poteva guardare un serpente velenoso trovato
nel mezzo di un campo. «Che la Luce ci preservi, amico mio.
Dovremo essere lì.»
E, detto questo, tolse la mano e montò di nuovo a cassetta.
Renald li osservò allontanarsi, pungolando il bue affinché si
muovesse, diretti a nord. Renald li guardò a lungo, provando
un senso di intontimento.
Il tuono schioccò in lontananza, come il rumore di una frustata,
riverberando contro le colline.
La porta della fattoria si aprì e si richiuse. Auaine uscì e venne
verso di lui, con i capelli grigi raccolti in una crocchia. Erano
così da parecchi anni, ormai; era ingrigita presto, e Renald
era sempre stato affezionato a quel colore. Argento, più che
grigio. Come le nubi.
«Quello era Thulin?» chiese Auaine, osservando il carro sollevare
polvere in lontananza. Un’unica penna di pollo nera veniva
sospinta dal vento lungo la strada.
«Sì.»
«E non si è fermato, nemmeno per una chiacchierata?»
Renald scosse il capo.
«Oh, ma Gallanha ha mandato le uova!» Auaine prese il cestino
e iniziò a trasferirle nel suo grembiule per portarle dentro.
«È così cara. Lascia il cestino lì per terra: sono certa che
manderà qualcuno a prenderlo.»
Renald si limitò a fissare verso nord.
«Renald?» chiese Auaine. «Cosa ti è preso, vecchio ceppo?»
«Ha lucidato le sue pentole per te» disse lui. «Quelle col fondo
in rame. Sono sul tavolo della sua cucina. Sono tue, se le
vuoi.»
Auaine rimase in silenzio. Poi lui udì un netto rumore di
qualcosa che si rompeva e si guardò indietro. Lei aveva lasciato
afflosciare il grembiule e delle uova stavano scivolando giù,
cadendo a terra con un tonfo e rompendosi.
Con voce molto calma, Auaine chiese: «Ha detto nient’altro?»
Lui si grattò la testa, su cui in realtà non restavano molti capelli.
«Ha detto che la tempesta stava arrivando e che dovevano
dirigersi a nord. Thulin ha detto che dovremmo andare anche
noi.»
Rimasero immobili per un altro momento. Auaine tirò su il
bordo del suo grembiule, conservando la maggior parte delle
uova. Non degnò di un’occhiata quelle che erano cadute. Il
suo sguardo era fisso verso nord.
Renald si voltò. La tempesta aveva fatto un nuovo balzo in
avanti. E pareva essere diventata in qualche modo più scura.
«Penso che dovremmo dar loro ascolto, Renald» disse
Auaine. «Io… io andrò a preparare quello che ci occorrerà portare
con noi dalla casa. Tu puoi andare a radunare gli uomini.
Hanno detto per quanto staremo via?»
«No» rispose lui. «Non hanno nemmeno detto davvero
perché. Solo che dobbiamo andare a nord per la tempesta. E…
che questa è la fine.»
Auaine trasse un brusco respiro. «Bene, tu pensa a far preparare
gli uomini. Io mi prenderò cura della casa.»
Si precipitò dentro, e Renald si costrinse a distogliere lo
sguardo dalla tempesta. Girò attorno alla casa ed entrò nell’aia,
chiamando a raccolta i braccianti. Era gente robusta, bravi
uomini, tutti quanti. I suoi figli avevano cercato fortuna al-
trove, ma i suoi sei lavoratori per lui erano quasi come figli.
Merk, Favidan, Rinnin, Veshir e A’damad si radunarono attorno
a lui. Sentendosi ancora intontito, Renald mandò due di loro
a riunire gli animali, altri due a imballare grano e provviste
che avevano lasciato per l’inverno e l’ultimo uomo ad andare
a prendere Geleni, che era andato al villaggio per dei semi
nuovi, nel caso in cui la semina fosse andata male rispetto alle
loro scorte.
I cinque uomini si sparpagliarono. Renald rimase lì nell’aia
per un momento, poi andò nel granaio per prendere la sua
forgia leggera e portarla alla luce. Non era solo un’incudine,
ma una forgia completa e compatta, fatta per essere trasportata.
L’aveva montata su ruote: non si poteva lavorare a una
forgia dentro un granaio. Tutta quella polvere poteva prendere
fuoco. Sollevò i manici, portandola fuori nell’angolo apposito
a lato dell’aia, costruito con solidi mattoni, dove poteva effettuare
piccole riparazioni quando necessario.
Un’ora più tardi aveva attizzato il fuoco. Non era esperto
come Thulin, ma aveva appreso da suo padre che essere capace
di lavorare un poco i metalli faceva una grossa differenza.
Avolte non si potevano sprecare ore per andare e tornare
dalla città solo per aggiustare un cardine rotto.
Le nubi erano ancora lì. Cercò di non guardarle mentre lasciava
la forgia e si dirigeva nel granaio. Quelle nubi erano come
occhi, che sbirciavano da sopra la sua spalla.
Dentro il granaio la luce filtrava attraverso crepe sulla parete,
cadendo su polvere e fieno. Aveva costruito lui stesso quella
struttura, circa venticinque anni prima. Continuava ad avere
intenzione di rimpiazzare alcune di quelle travi del tetto
incurvate, ma ora non ci sarebbe stato tempo.
Giunto alla parete degli attrezzi, allungò una mano verso la
sua terza miglior falce, poi si fermò. Trasse un profondo respiro
e prese invece dal muro la migliore. Tornò fuori alla forgia
e le tolse l’impugnatura.
Mentre gettava da parte il legno, Veshir – il più anziano dei
suoi braccianti – si avvicinò tirando un paio di capre. Quando
Veshir vide la lama della falce sulla forgia, la sua espressione
si rabbuiò. Legò le capre a un palo, poi si diresse verso Renald,
ma non disse nulla.
Come fare un’alabarda? Thulin aveva detto che erano buone
per strattonare un uomo giù da cavallo. Bene, avrebbe dovuto
rimpiazzare il lungo manico ricurvo con un’impugnatura
dritta e più lunga di legno di frassino. L’estremità flangiata
del manico si sarebbe estesa oltre la parte terminale della lama,
foggiata in una punta grezza e rivestita di un pezzo di stagno
per una maggiore forza. E poi avrebbe dovuto riscaldare
la lama e percuotere la punta fino a mezza strada, formando
un gancio che avrebbe potuto strattonare un uomo giù da cavallo
e forse ferirlo allo stesso tempo. Fece scivolare la lama in
mezzo alle braci ardenti per arroventarla, poi iniziò ad allacciarsi
il grembiule.
Veshir rimase lì per un minuto circa, a osservare. Infine si
fece avanti, prendendo Renald per il braccio. «Renald, cosa
stiamo facendo?»
Renald si liberò dalla sua stretta. «Andiamo a nord. La tempesta
sta arrivando e noi andiamo a nord.»
«Andiamo a nord solo per una tempesta? Ma è follia!»
Era quasi la stessa cosa che Renald aveva detto a Thulin. Un
tuono risuonò in lontananza.
Thulin aveva ragione. I raccolti… i cieli… il cibo che si guastava
senza preavviso. Renald lo sapeva perfino prima di aver
parlato con Thulin. Dentro di sé lo sapeva. Questa tempesta
non sarebbe passata sopra le loro teste per poi svanire. Doveva
essere affrontata.
«Veshir,» disse Renald, tornando al suo lavoro «sei un bracciante
in questa fattoria da… quanto, quindici anni, ormai? Sei
il primo uomo che ho assunto. Ho sempre trattato bene te e gli
altri, non è così?»
«Mi hai trattato bene» disse Veshir. «Ma, che io sia folgorato,
Renald, non hai mai deciso di abbandonare la fattoria prima
d’ora! Questi raccolti si ridurranno in polvere se li lasciamo.
Questa non è un’umida fattoria del Sud. Come possiamo andarcene
così?»
«Possiamo,» rispose Renald «perché se non ce ne andiamo,
non avrà importanza se avremo seminato o meno.»
Veshir si accigliò.
«Figliolo,» disse Renald «tu farai come dico io, e questo è
quanto. Va’a terminare di radunare il bestiame.»
Veshir si allontanò a grandi passi, ma fece come gli veniva
detto. Era un brav’uomo, anche se era una testa calda.
Renald tirò fuori la lama dalle braci. Il metallo era ora incandescente.
La appoggiò contro la piccola incudine e iniziò
a percuotere la sezione bitorzoluta dove l’angolo inferiore della
lama incontrava la barba, appiattendola. Il rumore del martello
sul metallo pareva più forte del normale. Riverberava come
il fragore del tuono, e i suoni si fusero. Come se ogni colpo
del suo martello fosse esso stesso parte della tempesta.
Mentre lavorava, quei rintocchi sembrarono formare delle
parole. Come se qualcuno stesse borbottando in fondo alla
sua testa. La stessa frase, più e più volte.
La tempesta sta arrivando. La tempesta sta arrivando…Continuò a martellare, mantenendo il filo sulla falce, ma
raddrizzando la lama e formando un uncino alla fine. Ancora
non sapeva perché. Ma non aveva importanza.
La tempesta stava arrivando e lui doveva essere pronto.
Mentre osservava i soldati con le gambe incurvate che legavano
su una sella il corpo di Tanera avvolto in una coperta, Falendre
si oppose all’istinto di ricominciare a piangere e al desiderio
di vomitare. Era la più anziana e doveva mantenere un
minimo di compostezza se si aspettava che lo facessero anche
le altre quattro sul’dam sopravvissute. Cercò di dirsi che aveva
visto di peggio, battaglie in cui era morta più di una sola
sul’dam, più di una sola damane. Le riportò alla memoria il
modo esatto in cui Tanera e la sua Miri avevano incontrato il
loro destino, però, e la sua mente si ritrasse da quel pensiero.
Rannicchiata al suo fianco, Nenci piagnucolò mentre Falendre
accarezzava la testa della damane e cercava di inviare sensazioni
calmanti attraverso l’a’dam. Quello pareva funzionare
spesso, ma oggi non così bene. Le sue stesse emozioni erano
troppo in subbuglio. Se solo avesse potuto dimenticare che la
damane era stata schermata, e da chi. Da cosa. Nenci piagnucolò
di nuovo.
«Consegnerai il messaggio come ti ho ordinato?» disse un
uomo dietro di lei.
No, non un uomo qualunque. Il suono della sua voce agitò
la pozza di succhi gastrici che Falendre aveva nello stomaco. Si
costrinse a voltarsi per guardarlo, si obbligò a incontrare quegli
occhi freddi e duri. Cambiavano a seconda dell’angolazione
della sua testa, ora azzurri, ora grigi, ma erano sempre come
gemme lucenti. Falendre aveva conosciuto molti uomini
duri, ma ne aveva mai incontrato uno che lo era a tal punto da
perdere una mano e solo pochi istanti dopo comportarsi come
se avesse perso un guanto? Si inchinò in modo formale, dando
uno strattone all’a’dam cosicché Nenci facesse lo stesso. Finora
erano state trattate bene, per essere delle prigioniere in
quelle circostanze: era stata data loro perfino acqua per lavarsi
e, a quanto pareva, non sarebbero rimaste prigioniere a lungo.
Eppure chi era in grado di dire cosa poteva far cambiare
quella situazione, con quest’uomo? La promessa di libertà poteva
far parte di un qualche piano.
«Consegnerò il tuo messaggio con la cura che richiede»
esordì Falendre, poi esitò. Quale onorifico aveva usato lei?
«Mio lord Drago» si affrettò a concludere. Le parole le seccarono
la lingua, ma lui annuì, perciò doveva essere bastato.
Una delle marath’damane apparve attraverso quell’impossibile
buco nell’aria. Portava tanti gioielli quanto un membro
del Sangue e, addirittura, un puntino rosso nel mezzo della
fronte. «Per quanto hai intenzione di rimanere qui, Rand?» domandò,
come se quell’uomo dagli occhi duri fosse un servo,
piuttosto che ciò che era. «Quanto siamo vicini a Ebou Dar?
Questo posto pullula di Seanchan, sai, e probabilmente fanno
volare dei raken tutt’attorno.»
«Ti ha mandato Cadsuane a chiedermelo?» disse lui, e le
guance della donna si imporporarono un poco. «Non resteremo
ancora molto, Nynaeve. Qualche minuto.»
La giovane donna spostò lo sguardo verso le altre sul’dam
e damane, che prendevano tutte ordini da Falendre, fingendo
che non ci fossero marath’damane a sorvegliarle e specialmente
non uomini con giubbe nere. Le altre si erano rimesse in ordine
meglio che potevano. Surya aveva lavato via il sangue dal
proprio volto e da quello della sua Tabi, e Malian le aveva fasciate
con lunghi rotoli di garza tanto che sembrava che indossassero
dei bizzarri cappelli. Ciar era riuscita a ripulire buona
parte del vomito che aveva sporcato la parte anteriore del suo abito.

Fanucci Editore tutti i diritti riservati.
“Presagi di tempesta”, R. Jordan – B. Sanderson, collana Collezione Fantasy, Fanucci Editore, Roma, 2011, 944 pp, 25 euro.

Anteprima: leggi il primo capitolo di "Londra tra le fiamme" , l’ultimo libro di Joe R. Lansdale

ROMA – Grazie alla collaborazione con Fanucci Editore, anche questa settimana nella rubrica Leggendo Crescendo di ChronicaLibri, potrete trovare in anteprima il primo capitolo di un nuovissimo libro per ragazzi. Questa settimana il nostro giornale ospita “Londra tra le fiamme”, l’ultimo e avvincente romanzo di Joe R. Lansdale in uscita tra qualche giorno per Fanucci Editore. Lo scrittore texano regala ai lettori un libro ricco di colpi di scena, un viaggio nel tempo che non fa sconti a nessuno. 

Huck tira le cuoia e Mark Twain taglia la corda
Nella casba di Tangeri, infagottato in un abito bianco pieno
di macchie, Samuel Langhorne Clemens – meglio noto come
Mark Twain, sudato come un gelato, sbronzo come un bonzo
e fetente come un deficiente – se ne stava sdraiato su un
materasso floscio da cui cadevano piume e polvere e, alla
luce di una lampada, rifletteva sulla scomparsa delle proprie
scarpe e sull’enfio cadavere di Huck Finn, la sua scimmietta.
  
Fanucci Editore tutti i diritti riservati.

“Londra tra le fiamme”, Joe R. Lansdale, collana Tif Extra, Fanucci Editore, Roma, 2011, 192 pp, 11.90 euro.

Huck giaceva sull’unico scaffale di quella minuscola topaia,
tumefatto e ricoperto da grosse mosche bluastre. Dal culo gli
ciondolava uno stronzo a forma di fico e altrettanto grosso, e la
lingua che gli spuntava dalla bocca sembrava voler strisciare
verso luoghi più sicuri. Indossava ancora – glieli aveva fatti
infilare lui – il cappellino rosso col laccio sottomento e il panciotto
verde, ma non c’era più traccia dei calzoncini scarlatti da
cui, per questioni di spettacolo, sbucavano le chiappe nude.
Twain non riusciva a capire perché ci fosse rimasto secco.
Restava comunque il fatto che, per qualche arcano motivo,
Huck era morto e senza brache e che, in un’ultima esplosione
gastronomica, era riuscito a incollare quello stronzo a forma
di fico su uno dei due soli libri sullo scaffale – Moby Dick –
mentre la sua lingua protesa raggiungeva quasi l’altro volume,
Ventimila leghe sotto i mari
nome Jules Verne.
Ficcato tra quei due libri di avventure marinare, giaceva
come in un bacino di carenaggio.
Twain si alzò con lentezza per poi chinarsi, con un sospiro,
sull’animale. La stanza puzzava di scimmia e della relativa
merda. Con riluttanza, afferrò Huck per i piedi ma, nel sollevarlo,
si accorse che quel tenace stronzo non intendeva affatto
mollare la presa sul massiccio tomo di Melville, trascinandolo
con sé. Twain dette uno scossone alla scimmia: Mobyfinì per staccarsi assieme allo stronzo. Poi sbirciò con
Dick
cautela dall’unica finestra – la casba sottostante era immersa
nel buio – e fece volare Huck dall’apertura.
Fu un lancio pregevole, che fornì alla scimmia un sostanziale
abbrivo.
Poi Twain udì un tonfo sonoro, e si rese conto che tale era
stato il suo impeto, nello scagliare via l’animale, da averlo spedito
dritto contro un muro, dalla parte opposta dello stretto
vicolo.
Non era certo quello il modo giusto di chiudere una vecchia
amicizia, ma Twain non aveva la minima intenzione di
seppellire quella piccola figlia di puttana; anzi, il vedersela
morire sotto gli occhi l’aveva fatto incazzare non poco. Huck
era sparito per un giorno intero, tornando in evidente stato di
malessere, e aveva vomitato più di una volta per poi piazzarsi
sullo scaffale come a voler schiacciare un sonnellino.
A un certo punto della nottata Twain si era accorto di un
rumore che, per un attimo, aveva creduto provenire dal suo
stesso intestino; ma gli era bastato accendere la lampada per
capire che in realtà si trattava di quello stronzo a forma di fico
schizzato via dal culo di Huck. Poi aveva visto la scimmietta
scalciare a ripetizione, prima di restare immobile.
Troppo sbronzo per muovere anche un solo dito, Twain si
era limitato a spegnere la lampada e riaddormentarsi.
Qualche ora più tardi, distrutto dal mal di testa ma abbastanza
sobrio per chiedersi se avesse sognato oppure no, l’aveva
accesa di nuovo scoprendo che, in effetti, Huck era ormai
defunto come il romanzo vittoriano ma senza neanche la speranza
di poter sopravvivere su uno scaffale. Già le mosche se
la stavano spassando alla grande, impegnate a perlustrare
ogni centimetro dell’animale, e – grazie al feroce caldo africano
– dal cadavere di Huck fumigava un tanfo capace di mandare
al tappeto un avvoltoio.
Poche storie. La scimmia doveva sparire.
Adesso che Huck era ormai uscito in tutti i sensi dalla sua
vita, Twain decise di concedersi un drink, scoprendo però di
non avere niente da bere. La fiasca in pelle di capra che di solito
conteneva del vino era vuota. La gettò a terra, calpestandola
nella vana speranza di farne sgorgare qualche misera goccia.
Niente da fare, purtroppo. Asciutta come un rigagnolo
marocchino in piena estate.
Si tolse la giacca, la scosse e la appese alla spalliera, prima
di sedersi e valutare il da farsi. Aveva ormai venduto tutta la
sua biblioteca, fatta eccezione per Ventimila leghe, che era firmato
dall’autore, e quel Moby Dick con tanto di stronzo. Non
possedeva neanche una copia delle proprie opere.
Che depressione.
Quando gli parve di essersi rimesso abbastanza in forze, si
alzò per prepararsi un caffè nel piccolo bricco di vetro. Un
caffè assai leggero, visto che gli erano rimasti solo i fondi del
giorno prima, così come nel contenitore di stagno trovò un
paio di biscotti stantii che riuscì a mangiare soltanto inzuppandoli
in quella brodaglia.
Nel tempo che impiegò a fare colazione, dalla finestra già filtrava
la luce e, dalla casba sottostante, salivano suoni e rumori.
Soffiò sulla lampada e recuperò il Moby Dick dal pavimento,
pulendolo con uno straccio e gli avanzi del caffè. Sul libro
rimase una leggera macchia: caffè, per l’appunto, non merda,
e poteva anche darsi che in quelle condizioni il volume non
perdesse poi molto valore. Tangeri era piena di avidi lettori di
qualsivoglia cosa scritta in inglese (esclusi, a quanto pareva, i
suoi libri) e non era escluso che da quello, così come dalla copia
autografata di Ventimila leghe, riuscisse a tirar fuori qualche
spicciolo.
Forse potevano bastargli per un pasto vero e proprio, frutta
e olive, e per un bicchiere di vino. Magari anche per l’affitto.
Il tutto era comunque assurdo.
E poi? Non sapeva dove andare a lavorare al suo nuovo
romanzo, che aveva preso la stessa piega della sua vita. Tutti
quelli che conosceva erano morti. Be’, non tutti. Gli era rimasto
qualche amico, per esempio Verne.
Si mise a rovistare per la stanza, trovando le scarpe smarrite,
poi afferrò una grossa sacca di tela bianca e vi ficcò dentro
i pochi oggetti personali e il manoscritto in lavorazione.
Infine prese i due libri. Dopo di che, scese le anguste scale e
piombò quasi di corsa nella casba, imbattendosi all’istante in
un branco di cani che pasteggiavano col cadavere di Huck.
Fu infine il più grosso, un bastardo con un solo occhio e per
di più semichiuso da chissà quale feccia, a strappare la scimmia
dalle grinfie degli altri commensali imboccando di gran
carriera il vicolo, con la coda dell’animale che sbatacchiava sul
lastricato.
Twain mollò un sospiro.
Forse anche lui sarebbe finito così, una volta morto. Gettato
in mezzo alla strada, divorato dai cani.
Sempre meglio che farsi sbranare dai critici letterari. Quei
figli di puttana.
La strada puzzava di pesce marcio e di pesce fresco. Il sangue
che grondava dai tavolacci andava a raccogliersi in minuscole
pozze color ruggine, insinuandosi tra le commessure del
lastricato. L’odore acuto delle olive fin troppo mature impregnava
l’aria e gli aggrediva le narici. Twain si aggirò per le
viuzze contorte, cosa che fino a sei mesi prima gli sarebbe parsa
più complicata del ritrovare la strada nel labirinto di Cnosso,
scovando infine Abdul che disponeva la propria mercanzia
su un consunto ma ancora splendido tappeto marocchino intrecciato
in azzurro, verde e viola. Tra gli oggetti in mostra sul
tappeto spiccava qualche libro. Alcuni di quelli li aveva scritti
proprio Twain, e provenivano dalla sua stessa biblioteca. Tutti
quanti, nessuno escluso, gli ricordavano i soldi che aveva investito
in donne e alcol. Soprattutto alcol.
Abdul occhieggiò Twain, munito di sacca e dei due libri
sottobraccio.
«Amico mio. Altri libri. Vedi bene che non ne ho bisogno.»
«Questi sono gli ultimi, Abdul. Una volta venduti, prendo
il traghetto per la Spagna.»
«E cosa ci fai, laggiù? Meglio che te ne resti qui, tra amici.»
«Vecchio filibustiere. Per tutto quel che ti ho venduto mi
hai dato un tozzo di pane. Questi sono volumi di pregio.»
«Non valgono molto.»
«Ti ho venduto copie firmate dei miei stessi libri.»
«Ahimè, neanche quelle valgono molto. Senza la firma, forse…»
«Davvero spiritoso, Abdul. Se non mi sentissi come con un
elefante seduto in testa, ti darei una bella ripassata vecchio stile,
come facciamo noi in America.»
Abdul scostò la tunica per far intravedere, agganciata alla
cintura, una guaina che conteneva una lama ricurva, sormontata
da un’impugnatura in argento e pietre preziose.
«Be’, lasciamo perdere» disse Twain. «Allora, Abdul, me li
compri questi libri?»
«Giura che sono gli ultimi.»
«Lo giuro.»
Twain si accucciò per disporli sulla coperta che Abdul aveva
steso a terra.
«Cos’è questa macchia sul Moby Dick?»
«La mia scimmia ci ha spiaccicato sopra un fico.»
«Huck? E dov’è?»
«Stamattina è balzato dalla finestra. Aveva deciso di suicidarsi,
è atterrato dritto di testa.»
Abdul lo guardò fisso.
«Anche le scimmie cadono dagli alberi» disse Twain.
«Molto bene. Posso darti…»
«In dollari, Abdul.»
«Molto bene. Posso darti quattro dollari.»
«Cristo santo, guarda che sul Ventimila leghe c’è una dedica
autografa di Jules Verne. Tra tutti e due ne abbiamo a volontà,
di materiale per collezionisti.»
«Okay. Dieci dollari, allora?»
«Perché non quindici?»
«Affare fatto.»

“Cyrus Dikto e la sinfonia dell’Immortale”: il romanzo fantasy diventa ecologista

ROMA – Un romanzo fantasy al servizio dell’ambiente.
Ad affrontare la difficile prova di coniugare avventura e impegno sono Lorenzo Amadio e Michelangelo La Neve, che esordiscono nella letteratura di genere con il romanzo Cyrus Dikto e la sinfonia dell’Immortale (Mursia, 2010 pagg. 408, euro 17,00). Lorenzo Amadio e Michelangelo La Neve portano sulla pagina la loro esperienza – rispettivamente – di pubblicitario e di sceneggiatore di fumetti, il risultato è un romanzo originale che mescola gli ingredienti classici del fantasy – la lotta del Bene contro il Male, le antichi stirpi di saggi, i demoni – con linguaggi nuovi che rimandano il lettore alla migliore tradizione delle graphic novel e al serrato linguaggio del mondo della pubblicità.


“Esordire a cinquant’anni nella letteratura per ragazzi è di per se un’avventura fantasy”, dice divertito Lorenzo Amadio, originario di San Benedetto del Tronto, docente alla Facoltà di Scienze della Comunicazione di Teramo, un curriculum di tutto rispetto nel mondo della pubblicità come copywriter prima e poi come responsabile comunicazione di importanti aziende, “Cyrus Dikto è un po’ come i nostri figli: ha alle spalle un passato importante ma rischia di non avere un mondo decente in cui vivere. Insieme a Michelangelo abbiamo immaginato che siano i ragazzini a salvare la Terra. Chi se non loro?”

La carta d’identità di Cyrus, che a dispetto del nome è irlandese, è questa: tredici anni, un papà affettuoso ma pasticcione, una carriere scolastica difficile (i bulli non risparmiano neanche gli eroi del fantasy) e una madre antropologa scomparsa durante una missione scientifica. Ed è proprio inseguendo un misterioso omino che promette di fargli incontrare la madre che il giovane Cyrus finirà in prima linea nella lotta contro i demoni di DeuSatan ferocemente determinati a trasformare il pianeta in un deserto di rovine.
“Dare voce a immagini è il mio lavoro da sempre”, spiega Michelangelo La Neve, autore di storie memorabili come la serie ESP, Il giorno dei Maghi, Sebastien X e collaboratore delle storie di Dylan Dog, Martin Mystere, Diabolik, Walt Disney e Raimbow, “In questo romanzo ho affrontato il percorso contrario: trovare voci in grado di generare immagini”.

Il risultato è un potente affresco fantasy di un mondo, il nostro, che si popola di creature mostruose come la strega figlia di Nekruth, o i micidiali fantasmi KaraSjok ma anche benevole e sagge come gli antichissimi Slojd e il manipolo degli anziani Nobel che guidano l’esercito Nodogon.
Cyrus e i suoi compagni “surfano”, letteralmente, sul Pianeta attraversando cinque continenti e combattendo epiche battaglie. L’ultima, e decisiva, su una piattaforma petrolifera in mezzo a un mare in fiamme invaso dal petrolio.

“Una cosa è certa: purtroppo la realtà ha superato il fantasy.” Parola degli autori.