Veruska Armonioso
ROMA – La biologia non mente, è questo quello che si dice. Che il sangue inneschi un legame, unico e indissolubile, tra le persone. Che si può rinnegare con la testa, ma il nostro istinto ci porterà sempre a provare emozioni verso qualcuno che ci appartiene per corredo genetico. Un fratello, ad esempio, che ci fa soffrire, che ci tradisce, che usurpa la sacralità della carica famigliare, resta sempre una persona verso cui provare sentimenti è inevitabile, che siano essi amore, rabbia o perdono. Lo stesso per un genitore che ci fa del male, che ci abbandona o che se ne va. Per lui, in verità, in profondità e nel segreto della nostra intimità, continueremo a nutrire emozioni. Si prova, dunque, comunque amore. Si prova comunque amore se c’è di mezzo una eredità trans generazionale a dettare le regole e il sangue in comune a confondere le scelte. Prendiamo una madre, ad esempio. Una madre come quella di Virginia Woolf che per struggente senso di mancanza decise di far rivivere nelle pagine del suo capolavoro Gita al Faro. Una madre che incita i propri figli a sognare, a sperare nonostante tutto, ad attendere il domani con costruttiva impazienza:
“ <Sì, certo, se domani sarà bello>, disse la signora Ramsay <Ma ti dovrai alzare al canto del gallo>, soggiunse. Le sue parole suscitarono una gioia immensa nel figlioletto, come fosse ormai sicuro che la spedizione avrebbe avuto luogo, e l’avvenimento meraviglioso che gli sembrava d’aver atteso con ansia da anni e anni fosse ormai, dopo una notte di buio e una giornata di navigazione, a portata di mano[…]<Comunque>, disse il padre, arrestandosi davanti alla finestra del salotto, <non sarà bello.> Se James avesse avuto a portata di mano un’accetta, un attizzatoio, o un’arma qualsiasi con cui squarciare il petto al padre e ucciderlo, là su due piedi, l’avrebbe immediatamente afferrata. […]<Ma può darsi che faccia bel tempo; secondo me farà bel tempo.>”
Prendiamo allora questa madre, e facciamo conto che suo figlio, un operaio socialista appena ventenne, che usa la sua casa come quartier generale per riunioni politiche venga imprigionato, che cosa fa? Ce lo racconta uno straordinario Maksim Gor’ki in “La madre” (Мать), romanzo in cui la madre si eleva a madre in senso assoluto, sia sposando la passione del figlio e facendola propria (sarà lei a continuare la campagna di propaganda fino a quando non verrà uccisa) sia diventando la madre di tutti i compagni del figlio. La madre, dunque. Non sua madre o una madre, ma “la madre”, in quanto madre di tutti poiché madre di uno. La madre come assunzione di ruolo in senso assoluto piuttosto che compito o responsabilità verso un unico individuo. Può una donna, una volta divenuta madre, essere madre anche di un figlio non suo? L’estremizzazione ce la regala KimKi Duk nel suo ultimo film Pietà, Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia di quest’anno. Una donna che ha visto suo figlio perdere la vita per mano della crudeltà gratuita di un suo coetaneo e che, nell’attuazione della sua vendetta verso il carnefice che, per esigenze strategiche aveva cominciato a trattare come un figlio, è capace di provare pietà per lui, al punto tale di rischiare di mandare tutto all’aria, proprio nella fase finale, per pietà.
Si prova amore anche al di là della biologia. Si può provare quell’amore puro e irrinunciabile che sposta equilibri, opinioni, abitudini, scelte, orientamenti. Si può provare un amore così trascendentale seppure privo di un patrimonio genetico da spartire. Ci si innamora, ad esempio, e ci si sposa. Ci si sceglie e si decide di impostare tutta la propria vita intorno allo stare insieme a un “estraneo” che diventa, per affinità elettiva o per scelta, la nostra famiglia. Di catena trattasi. Una catena composta da anelli, alcuni fatti della stessa materia, altri fatti di materia diversa. Ma senza quegli anelli, quelli di materia diversa, non ci sarebbero quelli uguali, quelli della stessa materia. La diversità, l’estraneità come occasione per creare nuovi legami, legami più solidi, che diano varietà e rafforzino l’altra metà di noi, quella opposta all’istinto animale che ci fa amare per similitudine. Quella della ragione, del lavoro, dell’amore non come punto di partenza, ma come punto di arrivo e incentivo per vivere e costruire. Così, se si può amare un’altra persona e sceglierla come compagno della vita, se questo è vero e possibile, è vero e possibile anche amare un’altra persona e sceglierla come figlio. Le adozioni ne sono l’esempio lampante e, del resto, il segno più grande di vera emancipazione emotiva; sempre più spesso la famiglia è quella che ci costruiamo, che scegliamo con cura e attenzione, per noi. Succede quando la natura ci nega la possibilità di essere animali. Cinico? Ma è così. Quando la natura non ci fa riprodurre, ecco che costruiamo un legame genitore-figlio con una persona estranea a noi. Quando la natura ci toglie un genitore, ecco che costruiamo legami genitore-figlio con persone estranee. E così, se a quindici anni la tua famiglia è composta da sorella, fratello, madre e padre, vent’anni dopo non è escluso che tua madre non ci sia più, tuo padre nemmeno, tuo fratello si sia perso e tua sorella sia lontana. E’ allora che la famiglia di salvataggio arriva. E’ allora che si impara ad amare al di là della biologia. E’ indiscussa, quindi, la possibilità di un amore accorato verso un estraneo e l’assegnazione di ruoli famigliari importanti. La domanda, strisciante e maliziosa, però, resta: come sarà questo amore? Sarà davvero uguale a quello verso un con-sanguigno? Oppure possiederà delle condizioni? Per amare una persona “come se fosse della propria famiglia” basta scegliere di farlo?Per amare un bambino “come se fosse figlio proprio” basta scegliere di farlo? La luce sugli oceani di Stedman, romanzo rivelazione del 2012 edito da Garzanti, ci dà l’occasione per capirlo, raccontandocelo con una grazia e una delicatezza quasi ottocentesca. A metà tra un racconto di Fitzgerald e della Woolf, la Stedman tocca tutti gli aspetti della psiche umana sottoposta alla perdita e lo fa con una delicatezza e, al tempo stesso, un realismo cinematografico. Ci dà indietro temi come il furto, la rivendicazione, la follia per la perdita, il dolore per il tradimento, la compassione, la giustizia. In un romanzo dove non ci sono vincitori né vinti, ma solo vittime e dove la natura è madre e matrigna al tempo stesso. Perché la vita vera è così, da una parte ti dà, con tutta l’energia e la generosità di cui è capace, e dall’altra ti toglie, con la crudeltà che si riserva solo a un nemico.
Qual è, allora il punto? Si può amare qualcuno “come se fosse”?
Il bisogno è la risposa.
Per quanto mi riguarda è così. Ché amare è sempre amare e l’unico sentimento vero è quello rintracciabile “nelle pieghe della mente” come scrive Barbara Ottaviani in Acquasanta. Il bisogno muove le nostre scelte e quello che si sceglie e si pratica con dedizione è ciò che durerà per sempre.
Individuare i propri bisogni è la base.
Scegliere di amare, chi amare e come farlo, è l’obiettivo.
Sentirsi liberi di farlo è il privilegio.
Trovare qualcuno disposto a lasciarsi amare è il dono.