"Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita": un volto per tutti quelli che non disturbano la Storia.

Giulio Gasperini
ROMA –
Sono molte le latitanze per non disturbare la Storia: Elsa Morante, ad esempio, lo dimostrò e documentò magistralmente in quel capolavoro che intitolò, non casualmente, “La Storia”. Negli anni del ribattezzato “secolo breve” uno dei modi coatti, più vergognosi e turpi, nel quale violare e sacrificare le individualità, fu il manicomio. Tutto questo prima della legge 180/78, la legge Basaglia, che chiuse tali “istituti” col nobile proposito (ahimè, mai perseguito né realizzato) di accudire e seguire i presunti “malati” in altri contesti e in altre forme di socialità. Poche sono state le voci che, dall’inferno di codesti istituti, si sono sollevate e sono giunte a ripristinare e riconfermare una liricità d’esistenza, una fiera (e, in molti casi, lucida) cognizione del sé. Adalgisa Conti è una di queste voci: sua è una lettera, di spietato autobiografismo, datata 25 marzo 1914, e pubblicata nel 1978 da Gabriele Mazzotta Editore, che si apre con queste limpide parole: “Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita”.


Quasi sempre, infatti, i documenti che han riportato in vita quest’umanità dolente, questi uomini e donne di dolore, sono lettere, ritrovate un po’ per caso un po’ per sbaglio nei mucchi di materiale e di documentazione studiato, con coraggio e passione, spesso solamente da associazioni interessate a un recupero memoriale che non fosse solamente pura curiosità morbosa, ma consapevole resurrezione e redenzione di coscienze (le nostre, prima che le loro). Lettere che testimoniano quanto la scrittura fosse sentita dai “pazienti” come mezzo per preservare intatta la propria vita.
Un privilegio, quello di essere “alfabeta”, che pure Adalgisa scontò come una punizione, cercando di trovare nelle parole il suo affrancamento: dalla stesura della lettera, infatti, appena internata, trascorsero più di sessant’anni, nei quali Adalgisa tornò a essere di nuovo una lunga lista di appunti su una cartella clinica (e quasi tutti che la indicavano come “invariata”).
La vicenda di Adalgisa Conti è simile a quella di molti altri uomini e donne, i quali, come è scritto nell’Ecclesiastico, “svanirono come se non fossero esistiti; furono come se non fossero mai stati”. Molti, nelle loro lettere, chiedevano ai familiari di andare a trovarli, perché non riuscivano a capire la ragione della loro segregazione, della loro esclusione dal mondo.
Simone Cristicchi ci ha presentato, nel suo album “Dall’altra parte del cancello”, un certo Gottardo, che scrisse alla moglie, dal manicomio di Volterra: “È già diverso tempo che io mi trovo in questo manicomio ricoverato […] Non potete immaginare quanto brami di tornare a Cecina, che qui mi par d’essere in esilio”. La giovane Adalgisa, invece, chiese alla madre: “Devo aver fatto dei gran mali al mondo non è vero mamma?”; con uno sbigottimento che spezza il cuore.

"I ca dao del Vietnam": la poesia del quotidiano che nutre l’uomo.

Giulio Gasperini
ROMA –
La poesia, si sa, nacque esattamente quando nacque l’uomo. Prima della narrativa l’uomo manifestò la sua coscienza artistica tramite versi, tramite il modulare di ritmi e suoni. Ed era una poesia, come Omero insegna, che discettava del quotidiano, che nella vita di ogni istante, di ogni attimo, sapeva gemmare ed elevarsi a voce dell’eterno, in un laccio così stretto e inscindibile tra la materialità dell’esistenza e la validità acronica dei sentimenti. I primi poeti furon tutti anonimi, senza voci né volti, proprio perché la visione poetica era di competenza comune. “I ca dao del Vietnam” (pubblicati dalla ObarraO edizioni nel 2000) proprio questa ricchezza possiedono: quella, cioè, d’esser stati composti da uomini comuni, da contadini, da barcaioli, che possedevano la ricchezza piena della lingua e sapevano accordarla sontuosamente con gli elementi naturali, coi loro moti interiori, coi profili degli altri uomini e delle altre donne.


La lingua vietnamita è una lingua dolce e complessa, dalla storia travagliata e dagli apporti consistenti dal cinese e da altri idiomi. Per questa la traduzione contravviene molto al messaggio originale. Però le immagini che codesta poesia sa evocare, i legami d’assoluta perfezione, disarmanti nella loro semplicità e purezza, la perfetta corrispondenza tra sensi umani e potenza naturale non si incrina, ma riluce splendida e cristallina anche tramite l’interpolazione d’un traduttore (“Io sono una goccia di pioggia che cade, cade nel pozzo, cade nel roseto. Io sono una goccia di pioggia che cade, cade sul palazzo, cade nella risaia”).
I ca dao hanno formato non soltanto la coscienza poetica del popolo vietnamita, ma finanche quella politica e sociale, perché diventarono uno strumento privilegiato della resistenza, un tentativo di non cedere e di mantenersi saldi al proprio impegno prioritario di libertà (“Mangio germogli di bambù, mangio bambù grosso, in giro vedo solo bambù, nessun amico”, “se non vado in miniera tu cosa mangi?”). E poi c’è l’amore, il perfetto argomento poetico, che qui si colora di note lontane dalle nostre tradizioni, e ci si presenta diverso, remoto, e ancor più interessante: “Ti amo, è la mia piccola sorte”, “tante tegole ha il dinh, tante volte ti amo”, “Amarsi, non c’è bisogno di letto e stuoia, basta una grande foglia per coprirsi della rugiada”. E poi c’è la tradizione, la saggezza, la ricchezza dei vecchi che vedono passare le stagioni e imparano come vivere, assecondandole e rispettandole: “Pioggia fine del nono mese, vento gelato, sollevo il secchio come mani tremanti”, “Vado a lavorare la risaia comune, scodella grande, soldi in mano”.
Oriana Fallaci ha scritto che questo piccolo paese, il Vietnam, ci aveva dato troppo: “Ci ha dato la coscienza d’essere uomini”. Lei parlava della guerra; io credo che si possa dire anche per la poesia.