Innamorata dei libri da sempre, ne ha fatto oggetto di studio. Ama il Medioevo e Federico II di Svevia e per fame di shopping ha svolto mille lavori orrendi. Ha scritto e condotto con Giuseppe di Chiera il programma radiofonico "Pandora e Senofonte" sull'emittente romana RM12. Il suo punto debole sono il gossip storico e le storie d'amore. Conosce un mucchio di poesie tristi a memoria con le quali adora ammorbare gli amici.

Il Grande Gatsby: Fitzgerald, l’amore e un po’ di Scotch.

Marianna Abbate 

ROMA – La cosa più bella dei romanzi di Fitzgerald è che non si capisce proprio dove voglia andare a parare. Stai lì a pagina 1 tra le luci soffuse, a pagina 15 ad un barbecue party, a pagina 50 provi un filo di perle, e ancora non hai capito che cosa stai cercando. A pagina 75 sorseggi whiskey e cominci un pochino ad agitarti perché c’è qualcosa che proprio non quadra. Poi ci ripensi bene e ti ricordi che già a pagina 30 avevi avuto la stessa sensazione, ma era stata offuscata dal desiderio di capire come sarebbe andata a finire quella discussione tra quei due nell’angolo della sala.

E quando succede il patatràc, perché con Fitz è garantito, tu non te lo aspettavi proprio. Perché della narrazione cambia improvvisamente e ti ritrovi intricato in un vortice di avvenimenti incomprensibili e repentini da far girare la testa e pensare: “lo sapevo, lo sapevo”. E invece non sapevi proprio niente.

Un’altra cosa bella di Fitzgerald è che da delle indicazioni estremamente precise. Il lettore non ha tanto spazio per l’immaginazione, perché è lo scrittore stesso a dipingere con esattezza quel lampadario, quell’abito, quell’atmosfera. Ogni sorriso e ogni sguardo hanno una loro posizione tanto che sei costretto a visualizzare esattamente quello che l’autore aveva in mente. Probabilmente molti di quelli che andranno a vedere il film in uscita al cinema il 16 maggio, penseranno: “come ha fatto il regista ad entrare nella mia testa?”. Niente di più sbagliato, siamo noi lettori fissi e attenti dentro la geniale e affascinante testa di Fitzgerald.

Ora trovo veramente inutile soffermarmi sulla trama, dal momento che c’è una bella pagina Wikipedia dedicata all’argomento. Vi parlerò invece della caratterizzazione dei personaggi, che trovo essere un altro notevole punto di forza dell’autore.

Qui serve una breve ma indispensabile nota di gossip letterario: Francis Scott era sposato con tale Zelda, donna affascinante e moderna, ma nel contempo molto instabile. I Fitzgerald conducevano una vita festaiola e sregolata, amavano dare scandalo e sconvolgere il pubblico dei grandi party. Sembra che i loro eccessi siano gli stessi descritti dallo stesso Fitgerald in “Belli e dannati”, memorabile romanzo sull’ascesa e sulla caduta di una giovane coppia (riconducibile facilmente all’autore e alla moglie), ai tempi del ragtime.

Sono proprio i coniugi Fitz l’emblema dei Ruggenti Anni Venti. Questa profonda conoscenza della vita sociale dell’epoca, di cui l’autore non fu solo protagonista assoluto, ma spesso regista, porta lo scrittore a restituire diversi piani di interiorità dei suoi protagonisti. Solitamente i suoi uomini e le sue donne sono identificabili attraverso una stratificazione di emozioni, celate dietro maschere cerulee e brillanti, dietro sorrisi e complimenti di circostanza.

Sepolcri imbiancati, lucidati e carichi di brillantina.

E per finire consigli per gli acquisti. Esistono infinite edizioni di questo romanzo, oltre a quella Mondadori in foto: ultimamente lo potete trovare a 0,99 cent. della Newton Compton (per la verità i caratteri sono un po’ piccolo, quindi dotatevi di buoni occhiali).

 

Grandi letture ad un prezzo piccino picciò.

Marianna Abbate
ROMA – Certe buone idee non hanno bisogno di essere nuove. Specialmente in questo momento storico/politico, la scelta di riciclare vecchie buone idee ha un sapore ecologico e salutare. E così la cara vecchia Newton Compton, storica editrice romana si è rinnovata ancora una volta frugando nei vecchi magazzini.  Nota bene: la Newton Compton ha sempre avuto buone idee, tanto che negli ultimi tempi da piccola casa editrice è diventata una media abbondante, e chissà cosa le riserverà il futuro.
Comunque veniamo a noi. Il punto di forza di questo editore è da sempre stato il prezzo: se guardate bene nelle vostre librerie troverete sicuramente i mitici volumetti da mille lire. Con il passaggio all’euro i libricini sembravano spariti dalla circolazione, sostituiti dai grandi romanzi rosa, un po’ commerciali, a 9,90 euro. Libri da spiaggia, diciamolo, ma con una particolare attenzione alla grafica e alla copertina.

Ed ecco che, camminando tra gli scaffali di un negozio di articoli elettronici mi trovo davanti ad un cesto pieno zeppo di libri: tutti ad 1 euro meno 1 centesimo. Copertine coloratissime e autori ultranoti. Ho approfittato subito per accaparrarmi un Grande Gatsby da regalare a quella capretta del mio ragazzo, che al cinema durante “Midnight in Paris” mi ha sussurrato “Fitzgerald chiii??” facendomi vergognare come un ladro.

Orbene, educare il proprio fidanzato ha un prezzo: un prezzo molto basso, che tutte siamo disposte a pagare. Mi stanno venendo in mente mille slogan promozionali per la collana, ma li terrò per me.

Per me ho preso tre libricini carinissimi: “Le notti bianche” di Dostoevskij, “Lady Susan”della Austen e “Il ballo” della Nemirovsky. Per ora ho letto solo “Il ballo”: un racconto piacevolissimo sulle contraddizioni della società e sulla moralitas tra aristocrazia e nuovi ricchi negli anni ’20, applicabile facilmente ai giorni nostri.

Ma chi vuole può trovare Seneca, Poe e persino un libro sui vampiri che ho guardato un po’ incredula. Comunque il mio consiglio è: fatevi una bella scorta e preparate delle monete. Mica potete pagare con la carta 2.97 euro per 3 libri!

“La neve nell’armadio”: spiegare “la vergogna del mondo”

 

Marianna Abbate

ROMA – “La storia/ quella vera/ che nessuno studia/ che oggi ai più da soltanto fastidio”: Sono questi i primi tristi versi della poesia di Nelo Risi che Mottinelli ha scelto per intitolare il suo saggio “La neve nell’armadio” Auschwitz e la “vergogna del mondo” edito da Giuntina.

Vi riporto questi versi perché io stessa ho sperimentato il fastidio delle persone al mio ennesimo ritorno sulla questione dei campi di concentramento: è un’ossessione, mi dicono, sei depressa e ti crogioli nella tragedia. Ci ho riflettuto a lungo su queste parole. Perché sì, è vero che parlo di Auschwitz spesso. Lo riporto alla memoria di chi porta la croce celtica al collo, di chi osa dire che Mussolini era un grand’uomo, di chi difende il fascismo o accusa gli ebrei. Lo ricordo a chi tranquillamente non cambia canale quando in televisione torturano qualcuno, a chi non mostra pietà per le vittime delle tragedie quotidiane.

Questa tragedia abita il mio cuore, è vero. Ma non è un’ossessione: è un obbligo morale.

Mottinelli ci avvicina ad Auschwitz in una direzione nuova: l’analisi della vergogna. Una vergogna innominata che aleggia su tutti gli eventi che riguardano la Shoah. E una vergogna che inspiegabilmente non appartiene ai carnefici ma alle vittime, che ferisce ulteriormente chi già ha subito le peggiori torture del mondo.

L’autore ci spiega come questa vergogna cambi volto nelle diverse rappresentazioni del campo di concentramento. La vergogna quasi completamente assente come parola nel documentario, lungo oltre 9 ore, di Lanzmann Shoah, pronunciata una volta sola: eppure pienamente presente in ogni immagine, nei silenzi e negli occhi di chi racconta la sua testimonianza, incalzato dal meticoloso regista.

La stessa vergogna si può ritrovare nei racconti di testimoni, nei loro scritti. “Provavo vergogna per loro, per come ci avevano ridotte” dice Goti Bauer. Con un semplice transfer la colpa passa dal carnefice alla vittima, secondo lo stesso meccanismo che segna di peccato l’oggetto di una violenza carnale. E’ il torturato stesso a cercare in sé improbabili colpe, per giustificare la terribile pena che ha subito.

La vergogna ha mille volti: quello del Sonderkommando che non ha saputo ribellarsi al terribile compito, quello di chi non ha saputo guardare in faccia l’assassino, di chi non ha alzato la voce quando davanti ai suoi occhi uccidevano un bambino. La vergogna ha il volto di chi è tornato e non lo meritava, insultato in faccia da chi aspettava che tornasse l’altro. Ha il volto di quello che non riesce a guardarsi allo specchio, ripensando agli atroci martiri che ha subito, alle umiliazioni che ha sopportato.

Ha il volto di Primo Levi, che si guardava disgustato della propria bassezza quando supplicava per un tozzo di pane. Quella stessa vergogna che lo portava a chiudere con attenzione i polsini delle camicie per non mostrare quell’orribile tatuaggio. Quel numero che era impresso nelle sue viscere, e che ormai era il suo vero nome.

La vergogna ha un peso. Forse il più insopportabile.

Come spiegare altrimenti i lunghi silenzi dei salvati? La fatica a trovare le parole che potessero spiegare quello che si è vissuto? Come far capire Auschwitz?

Quel campo per molti è diventata l’unica casa possibile, l’unico posto da abitare. Il luogo dove si sentivano compresi.

Fuori da queste mura non c’è un posto da vivere per chi ha “vergogna del mondo”.

 

 

Il Vaticano, protagonista indiscusso tra fantasia e realtà.

Marianna Abbate
ROMA  – Di libri sui segreti complotti del Vaticano ne sono stati scritti molti. Alcuni sono esageratamente fantasiosi, altri inquietanti. E poi c’è “Il curatore segreto del Vaticano” di Umberto Vitiello, pubblicato da qualche settimana da Lupo Editore.

 

Il romanzo immagina un futuro vicino, dove la Chiesa sta cercando di riorganizzarsi, lottando contro le impurità interne nell’intento di ritornare alle origini del cristianesimo. Trama abbastanza ingenua  e irreale, se non fosse che l’attualità sembrerebbe quasi dare ragione all’immaginazione dell’autore. Per Vitiello la trasformazione dovrà avvenire durante un segretissimo concilio, da svolgersi in un luogo misterioso e isolato come una tranquilla abbazia montana. Ovviamente la pacifica location è tutt’altro che sicura, a tratti ricorda moltissimo l’impervio monastero del “Nome della rosa”, e diventa subito dalle prime pagine teatro di un terribile omicidio su un aspirante monaco dalla storia complicata e dal passato sospetto.

Grazie all’aiuto di uno dei monaci che abitano l’abbazia, che per caso era dottore in economia, si risolvono e vengono svelati i terrificanti segreti della banca vaticana.

 

Il libro è interessante dal punto di vista della costruzione, tuttavia devo ammettere che a volte l’innegabile erudizione dell’autore rallenta un poco la trama: forse è questo il punto debole del romanzo. Tuttavia tutte le fila sembrano ricongiungersi in maniera abbastanza nitida, e questo è sicuramente un  punto a favore dell’esperienza di Vitiello.

Più che un vero e proprio thriller, nonostante gli ingredienti fondamentali siano mistero, omicidio e deduzioni, si tratta di un romanzo suspense con una strizzata d’occhio alla storia e, inaspettatamente, all’attualità.

 

Uri Orlev, avere 13 anni nel campo di concentramento

Marianna Abbate
ROMA – Avere tredici anni è di per sé abbastanza complicato. Viviamo le nostre tragedie personali: ai maschi cambia la voce e le femmine cambiano significato. Avere tredici anni è un po’ una maledizione: pensiamo di sapere già tutto, ma nessuno ci crede.

Avere tredici anni ed essere un poeta è terribile. Gli amici ci prendono in giro, i grandi ci guardano con quell’indulgenza che odiamo.

Trovarsi in un campo di concentramento è inspiegabile al profano. Il campo è un posto fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Non è solo una prigione per il corpo: il campo è un ladro di anime. Il campo ci trasforma, ci rende mostri ai nostri stessi occhi.

Tredici anni e il campo di concentramento non sono due cose che vanno d’accordo. A tredici anni siamo troppo assorbiti dalla nostra tragedia interiore per comprendere appieno quello che accade intorno a noi, soprattutto se siamo dei poeti.

E se l’uomo adulto non riesce a cantare col piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, nel poeta bambino vince la creatività. Non solo: si tratta di una creatività vivace.

I versi del tredicenne Uri Orlev non sono disperatamente tristi.  Lo spirito fanciullo desidera sfogare la propria creatività, nonostante tutto. Uri riempie il suo preziosissimo taccuino di versi, ricopiati con attenzione dall’asse di legno usata per la brutta copia. Oggi queste poesie sono pubblicate in italiano ed ebraico da Giuntina, nel piccolo tomo “Poesie scritte a tredici anni a Bergen- Belsen (1944)”. 

E’ evidente il contrasto tra le rime semplici e la scrittura infantile, in contrapposizione alle tematiche gravissime e ad una innaturale autocoscienza. Il bambino cresciuto troppo presto, non riesce a vedere con nitidezza tutti i significati della realtà che lo circonda, tuttavia ha sviluppato un ottimo senso dell’osservazione. La trasposizione poetica della realtà vista con gli occhi curiosi di Uri, assume un’ironia involontaria quasi grottesca. Lo sguardo invidioso del ragazzo che vede gli altri detenuti grattare il fondo della pentola, mentre lui stesso cerca di frenare i morsi della fame con le rimanenze di quell’educazione, che una volta aveva un significato totalmente diverso, ci colpisce al cuore. Perché quei volti scarni, quelle teste rapate, quei numeri sul braccio tornano ad avere un nome, una storia.

Queste poche poesie non hanno un gran valore letterario. Come vi ho accennato le rime sono semplici e la struttura basilare. Le metafore, poi, non sono proprio azzeccatissime.

Quello che è interessante è il significato socio-antropologico di questi testi. Se a scrivere una poesia sul lager fosse stato un adulto, la parola tragicommedia nel titolo della poesia ci avrebbe indignati. L’invidia stessa ci avrebbe indignati.

Nella poesia “E la vita va avanti” troviamo un punto di vista molto interessante. Il piccolo poeta contrappone la quotidiana banalità delle conversazioni, alternandola anche graficamente verso per verso, agli orrori della guerra. L’intenzione di Orlev era quella di mostrare quanto il desiderio di sopravvivenza, il bisogno di parlare di banalità, permettano all’uomo di estraniarsi dagli avvenimenti che lo circondano. Questa sagace e intelligente osservazione avvicina i suoi versi a quelli della poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska. La stessa poesia è stata poi corretta e sistemata da un compagno di prigionia con più esperienza.

Effettivamente l’opera corretta, mostra appieno il potenziale del poeta.

 

Orlev da grande ha fatto lo scrittore per ragazzi, scrive prevalentemente in ebraico, ma queste prime poesie sono state scritte in polacco. Le sue opere sono state insignite, tra l’altro con il premio Andersen, il riconoscimento più alto per un autore di libri per l’infanzia.

 

 

 

“Nessuna esperienza richiesta”: felici e precari

Marianna Abbate
ROMA  Ho conosciuto un tale di quarant’anni con il posto fisso statale e più di cinquemila euro (!) di stipendio che amava definirsi “precario della vita” (sic!). A nulla è valsa la mia faccia disgustata e il mio tentativo di spiegare che “precariato” non è una condizione dovuta alle scelte personali, all’inettitudine e alla pigrizia, ma uno stato di disagio sociale strutturale. Il precario non si arrende, il precario rema controcorrente, insiste. Se si fosse arreso, quel contratto a breve scadenza non l’avrebbe mai trovato, o sarebbe già scaduto. I precari non sono dei falliti: è il sistema ad essere fallimentare.

Descentio, il protagonista di “Nessuna esperienza richiesta“, edito da Intermezzi, non è un fallito. Nonostante ci si senta fortemente.

Gianluca Comuniello ci ritrae con la tecnica del cubismo pittorico, tutti gli aspetti della sua personalità, tutti gli aspetti della sua vita, senza mai svelarlo completamente. Cambi repentini di narratore aiutano a mostrare quel senso di instabilità, di insoddisfazione e sempre più tangibile disagio che accompagnano Descentio in tutta la sua storia.

Perché Gianluca si sente un po’ Descentio, e forse l’unica cosa che non li accomuna è questo nome parlante, che sembra segnare disgraziatamente il destino dell’uomo di carta. Un nome volutamente altisonante, che invoca una gloria passata in opposizione all’attuale ineluttabile discesa.

Uno stato che non affligge solo il protagonista, ma un po’ tutti i suoi conoscenti, dall’amica sfortunata, all’esule calabrese. Tutti tranne una: Greta, la ex che non sbaglia un colpo. quella che quando dice cosa ha studiato, nessuno le fa le condoglianze.

Bhè io le farei le condoglianze ad uno che ha studiato agraria, non per amore della terra ma per mero calcolo. Ma che ne posso sapere io, che faccio l’impiegata contabile, dopo la mia bellissima e commovente laurea in lettere.

L’ultima nota va all’editore: Intermezzi si conferma un unicum nel panorama editoriale italiano. La capacità di scegliere libri complessi, innovativi anche nella forma e la scelta di scommettere sul “vero” nuovo, dà una piacevole ventata di freschezza e porta la speranza che giovani scrittori capaci esistono. Forse servirebbe un pelino in più di editing.

 

“Memorie dall’innocenza”, quando l’errore aveva un altro volto

Marianna Abbate
ROMA – La parola memoria non ha un significato statico, perfettivo, come quello della parola “ricordo”. Avere memoria comporta un impegno, un coinvolgimento della persona. Comporta sentimenti, sensazioni, emozioni. Il ricordo è un’immagine fissa, una fotografia del passato, una tela dipinta e ormai incorniciata. La memoria è un quadro in fieri: tieni ancora in mano il pennello e stai ancora scegliendo i colori che comporranno l’immagine. Hai ancora qualcosa da dire, qualcosa da cancellare, qualcosa di cui pentirti e qualcosa da focalizzare. La memoria cambia.

Ed è la memoria la vera protagonista di questo breve romanzo di Serena Frediani, edito da Avagliano. “Memorie dall’innocenza” utilizza l’antico escamotage dell’amnesia post-traumatica, per scavare nell’inconscio dei protagonisti. Vittime di un incidente ferroviario, due persone che non hanno apparentemente nulla in comune, si trovano a ripercorrere la loro vita in un viaggio metaforico, che li porterà a rivalutare scelte e decisioni compiute in passati ormai lontani. Riemerge in loro un dimenticato bisogno di perdono, per quelle colpe sopite, nascoste sotto strati di altri ricordi. E se anche le loro storie sono molto diverse, il dolore sembra essere lo stesso.

 

Bellissimo lo stile narrativo della Frediani. Frasi sospese, tensione intrinseca ed emozioni. Le parole seguono il flusso dei pensieri, ma senza perdersi nelle divagazioni naturali della mente. Sempre focalizzata sulla trama, l’autrice riesce a trasmettere le paure e le incertezze dei suoi protagonisti.

 

Daria e Jean, due figure che vi ricorderete.

 

“Il Paradiso delle signore”: Zola, lo shopping e Zara

Marianna Abbate – La passione per i libri, nel mio caso si accompagna con l’insostenibile passione per le serie tv, con particolare dedizione alle british di costume. A volte le mie due passioni si incontrano, sia in un verso che nell’altro. E così libri che ho amato sono diventati serie di culto, e serie che ho scoperto per caso mi hanno portato a leggere libri bellissimi: uno per tutti “The crimson petal and the white”, stupenda e commovente storia di una prostituta intelligente nell’Inghilterra del boom industriale di fine ‘800. Il caso del “Paradiso delle signore” è ancora più eclatante, perché, lo confesso, mai avevo sentito parlare di tale libro di Emile Zola, del quale ho letto parecchi pesantissimi mattoni, che per quanto notevolmente carichi di storia e patos sociale mi hanno lasciato sempre un po’ amareggiata. Direte giustamente: è proprio questo lo scopo della letteratura naturalista, mica ti aspetterai un romanzetto rosa dal grandissimo Emile Zola???

No, non mi aspettavo nessun romanzetto rosa dal padre del Naturalismo, dall’ispiratore del Verismo, dal più grande (forse) narratore sociale di tutti i tempi. Eppure eccolo qua.

Un romanzo rosa sociale signori miei.

Sostanzialmente la trama potrebbe svolgersi ai giorni d’oggi: gli elementi ci sono tutti. Il precariato, la crisi, il cambiamento l’innovazione il fiuto per gli affari. Viene quasi da pensare che il caro Emile sia resuscitato la settimana scorsa per produrre questo capolavoro di narrazione femminile dedicato alle commesse di Zara.

Perché come avete capito, il Paradiso delle Signore è un negozio. Un negozio bellissimo, enorme, carico di ogni elemento che potrebbe far felice una donna. Ci sono scarpe, tessuti, abiti preconfezionati, cappellini, foulard, bicchieri, piatti e posate. Tovagliame, tende vari calze, calzini e biancheria intima.

Un paradiso.

E poi c’è la commessa giovane, bella inesperta, ma con mille idee che le frullano per la testa. Un misterioso e intrigante proprietario del grande magazzino completa l’insieme. Ovviamente c’è anche la nobile fidanzata di lui, la direttrice altera del reparto abbigliamento, le colleghe con mille problemi e altri simpatici elementi che vi renderanno sempre più legati e curiosi a quel piccolo/enorme mondo che segna l’inizio dell’era del consumismo.

Bello, bello, bello. Leggetevi il libro e guardatevi la serie. Fatelo.

 

I 10 libri che vi consiglio di regalare

Marianna Abbate
ROMA – Quest’anno per i consigli natalizi, ho deciso di attingere a quello che ho toccato con mano, ossia ai libri che ho letto e recensito per voi in questo faticoso ma comunque bellissimo 2012. Ho cercato anche di individuare per tipo, gli amici a cui potreste fare tale dono. Per essere ancora più sicuri della vostra scelta, potrete trovare il link alla recensione cliccando sul titolo.

Per gli amanti del giallo storico: Claudia Misio “La sposa di Tutankhamon” edito da Arkadia, pp 270, 16,00 euro;

Per gli intellettuali un po’ pazzi: Lars Iyer “Magma” edito da Meridiano Zero, pp 181, 10,00 euro;

Per sconvolgere un po’ quelli che leggono in piedi in metro o sul tram: Carlo Sperduti “Caterina fu gettata” edito da Intermezzi, pp 128, 10,00 euro;

Per la festaiola: Carolina Cutolo “Romanticidio” edito da Fandango, pp 198, 13,00 euro;

Per chi ama Tarantino, Eastwood e il western maccheronico: Denhis McShade “La mano destra del diavolo” edito da Voland, pp 154, 13,00 euro;

Per il giovane cronista in erba: Antonio di Costanzo, “Non sono un fottuto giornalista eroe” edito da CentoAutori, pp 132, 11,00 euro;

Per l’inguaribile romantica: Melissa Hill “Un regalo da Tiffany” edito da Newton Compton, pp 402, 9,90 euro;

Per il politicamente impegnato: Zachar Prilepin San’kja” edito da Voland, pp 288, 14,00 euro;

Per la shopaholic colta: Seiffart Achim “Meditazioni sullo shopping” edito da Mimesis, pp 74, 10,00 euro;

Per chi adora piangere sui libri: Lizzie Doron “Salta, corri, canta” edito da la Giuntina, pp 200, 15,00 euro.

Questi sono i miei dieci libri per voi. Fateci sapere cosa avete regalato!!

 

“Lasciami andare”, perché io possa tornare

Marianna Abbate
ROMA  Una figlia che conosce solo suo padre. Una vita avvolta in un velo di maya che nasconde segreti e a volte scopre mezze verità. E’ questa la storia al centro del romanzo di Fulvia Degl’Innocenti “Lasciami andare”, pubblicato da Fanucci.

16 anni, già da soli bastano perché una ragazza abbia dei dubbi generici sull’esistenza propria, sul mondo e sui genitori. Ma quando ai timori adolescenziali si aggiungono alla misteriosa nostalgia materna e vengono stimolati da una sospetta e rabbiosa tristezza dell’unico genitore conosciuto, ecco che la macchina del cervello si accende. Bisogna sapere, bisogna scoprire. Il desiderio di conoscenza spinge oltre ogni confine, calpesta ogni lealtà. Diventa sete. Tanta è l’arsura da insinuare il più terribile dei sospetti.

Eleonora si ritrova tra carte, persone e storie che non le appartengono, ma che l’hanno vista protagonista ancora in fasce. E così, la ragazza accompagnata da un fedele amico, sulle tracce del proprio passato, come un detective, si trova in mezzo ad un mondo che non è il suo, a storie che non avrebbe dovuto sapere e a emozioni che non avrebbe dovuto mai provare. Ma solo toccando con mano questo mondo da cui era stata esclusa, potrà ritrovare la serenità, la fiducia e sentirsi un po’ meno sola.

Commovente questo romanzo, un racconto di formazione. Quello che mi ha colpito di più è l’atemporalità dei sentimenti, delle emozioni e dei sospetti. Una scrittura realistica e introspettiva, che mostra il quotidiano nella sua oggettività, spiegando nel contempo la relatività nella ricezione personale dello stesso.