Giulio Gasperini
ROMA – Su una cartina, un mappamondo qualsiasi, la sua estensione (appena 3.263 kmq) occupa il tempo, quasi, di un errore. Bisogna sapere che esiste, altrimenti si smarrisce, persa in quelle increspature vertiginose di rocce che si chiamano Alpi, trovandosi, guarda caso, proprio in quel segmento dove le Alpi sono più alte – le più alte d’Europa! Lei, in realtà, è formata da quelle sottili valli che, da ogni direzione, si riversano nella vallata centrale, quella solcata dalla Dora Baltea e dalla sua acqua che pare torbida, sporca, ma che è soltanto fresca di ghiacciaio. “Valle d’Aosta”, la guida delle Edizioni Lightbox (2011), è stata scritta dalla popolazione locale.
Sicché è una guida alternativa, un valido aiuto per partire alla scoperta della Vallée più nascosta, meno frequentata ma più genuina, meno nota e meno maltrattata dalle orde dei turisti, che finiscon sempre per corrompere il vero significato del tutto.La Vallée è una regione particolare, “speciale” come il suo statuto dalle origini antichissime (la Charte des Franchises o dei Privilegi fu promulgata da Tommaso I di Savoia nel 1191). La differenza si coglie subito, si percepisce immediatamente percorrendo la SS26, lasciandosi alle spalle Carema e entrando a Pont-Saint-Martin, prima città della Vallée con già un nome francese. La Vallée è, infatti, un’isola. Un’isola immersa tra vette montuose e ghiacciai, un’isola aspra e difficile, nella quale però l’uomo ha sempre voluto rimanere, saldo e stabile. E ce lo dimostrano i vari castelli che, uno dopo l’altro, di epoche e rimaneggiamenti diversi, si susseguono, quasi in un delizioso campionario, percorrendo la SS26: Bard, Verrés, Issogne, Montjovet, Fénis, Sarre, Aymavilles, Saint-Pierre, Villeneuve, Introd e Avise, soltanto per citarne alcuni. Tutte preziose testimonianze (insieme ai tanti e tanti terrazzamenti che l’uomo ha da sempre usato con intelligenza per coltivare la terra, senza mai, prepotente, violarla) di quanto questa terra fosse amata, pretesa e irrinunciabile da un punto di vista strategico e umano.
Chi, meglio dei valdostani, o di nascita o di adozione, potrebbe spiegare meglio questa terra, questo scrigno così chiuso ma al tempo stesso per molti aspetti progredito, proiettato verso un futuro decisamente migliore (nel 1866 Aosta fu la prima città in Italia a inaugurare l’illuminazione elettrica pubblica)? Chi meglio di coloro che l’hanno studiata, che la studiano, che la calpestano, che la scalano, che la promuovono e che tentano di salvaguardarla e preservarla col suo tesoro di lingua (in particolare, il patois valdostano, ovvero un dialetto francoprovenzale, e la lingua dei Walser, sparsi nella valle di Gressoney, dove sorge il castello amato da Margherita di Savoia, alle pendici del Monte Rosa) e tradizioni? Nessuno, ovviamente, se non i suoi figli: coloro che tra le sue dure zolle son stati partoriti, che con l’acqua dei suoi ghiacciai si son abbeverati, che sui suoi sentieri faticosi si son orientati, che alle sue vette altissime hanno sempre rivolto gli occhi, inventandosi un sempre più luminoso orizzonte.
Autore: admin
"La scatola di Penelope", dove nascondere qualcosa di speciale
Giulia Siena
ROMA – “Il giorno seguente, Penelope non mise nulla nella sua scatola. Avrebbe voluto solamente scomparire”. Questa è Penelope in uno dei tanti tentativi per avvicinare i suoi compagni di scuola. Penelope porta sempre con sé una scatola nella quale nasconde ogni giorno qualcosa. Lo fa perché vuole fare amicizia: in questo modo, secondo lei, può attirare l’attenzione degli atri bambini e può giocare con loro. Peter Carnavas racconta “La scatola di Penelope” per parole e immagini. Il libro, pubblicato da Valentina Edizioni (una vera e propria sorpresa nel panorama editoriale per ragazzi), è una storia dall’immensa semplicità e sensibilità.
Penelope per affrontare il primo giorno di scuola decide di farsi accompagnare da una scatola ; dapprima ci nasconderà il suo orsacchiotto, poi dei dolcetti, poi Frida – il suo magnifico cagnolino – ma nulla riuscirà a incuriosire gli altri bambini. Pensa, Penelope pensa a come fare per essere notata, fino a quando vorrà sparire ed entrerà nella sua scatola.
Festival Letterario Officina Italia 2011, ultima edizione
MILANO – Dal 20 al 22 ottobre la Palazzina Liberty di Milano (Largo Marinai d’Italia) ospita la quinta e ultima edizione di Officine Italia. Il festival letterario, giunto all’ultima edizione, affronta di petto l’immaginario letterario di Milano, città che negli ultimi tre decenni ha vissuto una decisa crisi d’identità, smarrendo la sua originaria vocazione di metropoli aperta, accogliente e soprattutto innovativa.
Ma l’importante svolta politica di questa primavera ha aperto scenari inediti e incoraggianti.
Prospettiva che vogliamo indagare attraverso i brani degli scrittori invitati a partecipare a questa ultima edizione, rimanendo fedeli alla tradizione di Officina Italia che pone l’autore e il suo processo creativo al centro del palcoscenico.
Abbiamo deciso di terminare l’esperienza di Officina Italia alla quinta edizione perché siamo
convinti dell’importanza del lavoro svolto fino ad oggi e siamo altrettanto convinti che le cose
belle e interessanti siano tali solo nella consapevolezza di un percorso da terminare. In modo che tornino a circolare le idee e si aprano nuovi orizzonti di sperimentazione.
Specie in questo paese, specie in questi anni.
Ideato e curato dagli scrittori Alessandro Bertante e Antonio Scurati, fin dalla prima edizione
del 2007 il festival letterario Officina Italia ha svolto un importante lavoro di approfondimento
sul rapporto fra la letteratura e la sua officina creativa, ampliando poi lo sguardo anche ad altri
ambiti dell’arte e della scienza.
L’idea alla base di Officina Italia è quella di convocare i migliori scrittori italiani a leggere in
anteprima dei brani delle opere che vanno approntando nella loro officina letteraria, creando un rapporto di complicità e di scambio con l’ascoltatore. La letteratura fa così da cornice e da interlocutrice privilegiata di una galleria di eccellenze della cultura italiana.
Roberto Saviano, Alessandro Baricco, Gabriele Salvatores, Alessandro Piperno, Paolo Giordano, Valeria Parrella, Pietrangelo Buttafuoco, Maurizio Maggiani, Carlo Lucarelli, Luciano Canfora, Sandro Veronesi, Michele Mari, Walter Siti, Tiziano Scarpa, Silvia Avallone, Sebastiano Vassalli, Vinicio Capossela, Nicolò Ammaniti, Melania Mazzucco, Filippo Timi, Michele Serra, Wu Ming, Ascanio Celestini e Antonio Moresco sono stati gli illustri ospiti delle passate edizioni.
(Comunicato stampa degli organizzatori)
“Si o No? Questo è il problema”: il debutto letterario di Paolo Meneguzzi
La sapienza più giusta è proprio quella de "I bambini".
Giulio Gasperini
ROMA – Sono senza dubbio anomali “I bambini” che Fausta Cialente getta, discreta e devota come sempre, sul palcoscenico narrativo di questi brevi ma sapidi racconti, pubblicati la prima volta nel 1976, da Editori Riuniti. La loro stesura è remota, è quasi contemporanea alla composizione del capolavoro, quel “Cortile a Cleopatra” che riteniamo uno dei maggiori romanzi italiani del Novecento. Tutti i racconti riportano la data in calce, e capiamo che non son stati più rivisti dalla scrittrice errante; tutti tranne uno, il primo, quella “Canzonetta” che dal titolo pare, invece, anticipare le tematiche dell’altro grande romanzo egiziano, “Ballata levantina”.
I temi, infatti, nella scrittura della Cialente, si ripetono con una certezza disarmante. Ma, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, la sapienza narrativa della scrittrice, la sua perizia immaginifica sono tali che pur essendo gli stessi i temi non si ripropongono secondo le solite declinazioni, ma si diversificano, si significano sempre nuovamente. Tutto questo depone, chiaramente, a favore della maestria e dell’abilità della scrittrice, che insieme a Elsa Morante può vantare un discreto plotone di racconti d’alto livello (ed è noto come sia molto più difficile scrivere un racconto che un romanzo di vera qualità).
I bambini della Cialente edificano dei mondi fantastici, mondi nei quali l’onirico penetra discreto ma prepotente: dove le statue prendono vita e accompagnano alla fine delle sofferenze, dove le donne fragili si lasciano soffocare dalla vita opponendo, come unica resistenza, il loro genuino (ma insufficiente) sorriso, dove si creano alleanze e si organizzano ribellioni, dove ogni piccolo tradimento è valutato come la fine d’ogni legame. Sono storie, quelle della Cialente, dove le stagioni scandiscono la crescita e dove, inevitabilmente, ogni bambino finisce per maturare un’assennatezza, una saggezza di vita, che proprio per la sua spontanea fioritura finisce per confermarsi più autentica di quella nata e nutrita dall’accumulo polveroso degli anni.
Il punto di vista è spietato: è soltanto quello dei bambini. E la Cialente ce lo presenta senza la pretesa che noi lo consideriamo quello più importante; ma suggerendoci che, in realtà, potrebbe essere, per molti aspetti, il migliore. Ed ecco che una vedova diventa quasi una fata, che assume il significato della vita, della freschezza, della ribellione a un destino inglorioso. Ed ecco che, al momento della sua scomparsa, i bambini rifiutan tutto il resto, tutto quello che si vorrebbe loro imporre. Loro soli, infatti, sanno quel che è vero e quello che non lo è. O, se non lo sanno, se lo immaginano, senza sottostare ai condizionamenti.
I bambini, si sa, credono prima di tutto alle loro creazioni. E separarsi da queste, per loro, è sempre una violenza.
“La Grammatica dei Sapori”: un nuovo e originalissimo approccio alla cucina
È il primo libro che esplora in maniera dettagliata gli accostamenti tra sapori, dai più classici ai più creativi, combinando esattezza empirica e suggestioni poetiche che coinvolgono tutti i sensi. L’autrice dimostra una particolare abilità intuitiva, capace di far emergere il meglio dagli abbinamenti tra ingredienti che risultano infinitamente più deliziosi di quanto possano essere se gustati singolarmente. Partendo da 99 ingredienti di base – i più presenti nelle cucine, nei libri di ricette e nei menu dei ristoranti che l’autrice ha perlustrato nel corso dei suoi viaggi in tutto il mondo –, classificati in ordine alfabetico, Niki Segnit prende in esame oltre 900 combinazioni, che raggruppa in 16 grandi famiglie di sapori speziati, terrosi, solforosi, marini, floreali-fruttati…). Per ciascun accostamento l’autrice analizza i risultati gustativi, associa idee, immagini e sensazioni, propone esempi di ricette. Il risultato è un libro unico, ricco di osservazioni originali (per esempio, il sapore del caffè è «Melanie Griffith in Una donna in carriera», Sedano e Aneto sono una coppia di settantenni la cui conversazione merita attenzione) e informazioni pratiche.
Una serata che si tinge di "Rosa e Nero"
Marianna Abbate
ROMA – Un uomo un po’ annoiato dalla vita, non riesce a cancellare il ricordo della donna troppo bella che si è lasciato scappare. La segue fino in Brasile, per scoprire che dietro quella bellezza materiale si nasconde un’anima ancora migliore.
E’ con questa storia rosa che inizia il romanzo, o meglio racconto lungo, di Giacomo Properzj, “Rosa e nero” edito da Mursia.
Ed è qui che la storia assume una tinta decisamente diversa, ma senza entrare mai nella dimensione del romanzo: il protagonista scopre che la donna che ha sempre amato è impegnata socialmente nell’aiuto dei bambini delle favelas. Colpito da questo atteggiamento, decide di fare qualcosa di utile della propria vita e partecipa ad un indagine ad alto rischio sui cosiddetti baby hunters, i cacciatori che vengono da tutto il mondo per godere perversamente dell’uccisione di un bambino.
Una storia che è anche una denuncia, raccontata come un reportage, senza tanti fronzoli e buonismo. Il protagonista non è un santo, le sue scelte non sono guidate dalla morale.
E’ lo stesso uomo che instaura una relazione sessuale con la figlia minorenne della portinaia, ma poi accoglie in casa una prostituta terrorizzata. La corrente della vita lo trascina con sé, fino a travolgerlo. Le sue scelte influiscono sulla vita di chi lo circonda, ferendo alcuni e salvando altri. E forse i danni sono anche maggiori del guadagno.
Neorealismo pasoliniano che non permette di distinguere nettamente tra il buono e il cattivo, pur evidenziando chiaramente le differenze tra bene e male.
Ma nessuno sarà chiamato a proclamare l’ardua sentenza.
"La vita al 90°"…storie di calcio non solo giocato
Silvia Notarangelo
Roma – Ci sono alcuni sport – e il calcio è uno di quelli – che hanno la capacità di smuovere gli animi, di suscitare interminabili discussioni e furibonde litigate ma anche di regalare storie straordinarie che assumono, nel tempo, contorni leggendari. Raffaele Ciccarelli ne ha scelte tre, davvero suggestive, per il suo “La vita al 90°”, pubblicato dalle Edizioni Cento Autori.
Si inizia con el divino Ricardo Zamora, classe 1901, professione portiere. E’ lui a difendere la porta delle Furie Rosse dal 1920 al 1934, è lui a ipnotizzare gli avversari con la sua calma, la sua sicurezza, la sua abilità nell’intuire sempre la traiettoria del pallone.
Ed è proprio contro el divino che la nazionale italiana deve fare i conti nei quarti di finale della Coppa del Mondo 1934. Lo svantaggio iniziale pare una condanna, i tentativi offensivi sono vani. Non c’è modo di trafiggere Zamora, è necessario inventarsi qualcosa. E a quel qualcosa ci pensa Angelo Schiavio che, ostacolandolo nettamente nella sua area di porta, consente a Ferrari di insaccare. L’1-1, come era facile attendersi, regge fino alla fine e, da regolamento, occorre rigiocare. Ma ecco che, proprio nei secondi novanta minuti, avviene ciò che nessuno si aspetta: Ricardo si siede in tribuna, al suo posto gioca Nogues. Una mossa incredibile, mai giustificata, probabilmente determinata da forti pressioni politiche. È la svolta. L’assenza dell’uomo in più, di quel portiere insuperabile, è un vero regalo per gli azzurri che riescono ad imporsi e a continuare il loro cammino verso quella finale che regalerà all’Italia la prima Coppa del Mondo.
Se segnare, come in questo caso, può essere davvero difficile, in altri, pochissimi a dire la verità, si è volutamente scelto di non segnare, impedendo al pallone di varcare la fatidica linea di porta. È quanto è avvenuto a Kiev, il 6 agosto 1942, di fronte l’FC Start e la Flakelf, ovvero, ex calciatori di Dinamo e Locomotiv, scampati alla deportazione, contro ufficiali dell’aeronautica tedesca. In palio non ci sono punti né trofei, c’è molto di più: ci sono la dignità e l’orgoglio di un popolo intero che si stringe attorno alla sua squadra nella consapevolezza che almeno lì, sul terreno di gioco, nessuno può sconfiggerla, perché lì, è lei l’assoluta dominatrice. Il risultato finale è quasi imbarazzante: 5-1 all’andata, 5-2 al ritorno, in un incontro che, di calcio, ha ben poco. Le conseguenze di questa doppia vittoria sul campo non tarderanno ad arrivare e saranno drammatiche, ma la voglia di rivalsa e la speranza nel futuro sono ormai consolidate e, presto, diventeranno realtà.
Un futuro spezzato, invece, per i Busby Babes, i ragazzi di Busby, di Sir Matt Busby. Quando, nel 1999, il Manchester United conquista la sua seconda Coppa dei Campioni, i tifosi dei Reds non si trattengono dall’intonare “Happy Birthday Sir Matt”. Matt è proprio lui, Matt Busby, e il pensiero torna, ancora una volta, ai suoi ragazzi, a quelle giovani promesse che avevano saputo incantare negli anni Cinquanta prima di arrendersi ad un crudele destino. Il volo proveniente da Belgrado, dove si erano facilmente imposti sulla squadra locale, non fece mai ritorno. Si schiantò contro una casa e prese fuoco. I superstiti furono pochissimi, tra di loro Busby. Lo sconcerto fu enorme, ricominciare sembrava impossibile. Eppure tutto ripartirà proprio da sir Matt, dalla sua voglia di rimettersi in gioco fino a ricostruire una squadra capace di raggiungere l’atteso traguardo: la conquista di quella Coppa dei Campioni che la sorte aveva negato ai suoi babes, ma che almeno lui può ora dedicare alla loro memoria.
"Bacio a cinque", un’infanzia a fumetti
Giulia Siena
ROMA – “Storia, da zero a dieci anni, di Giulia, bambina con la B maiuscola, meraviglioso flagello della specie femminile. Come sono tutte le vere bambine. A cui questo esilarante, coinvolgente, fumetto autobiografico è un omaggio a tutto tondo”. Leggi queste righe della quarta di copertina e in un batter d’occhio vieni investito da una spasmodica curiosità. Ti chiedi cosa possa contenere questo libro azzurro che tieni tra le mani; ti domandi per cosa, la protagonista di “Bacio a cinque”, viene definita meraviglioso flagello. Per tali motivi apri il libro e lo chiudi solo dopo averlo finito, solo quando tutte le curiosità saranno sopite.
Giulia Sagramola, giovane illustratrice marchigiana, “dipinge” la suo infanzia e la scandisce in un fumetto: “Bacio a cinque”, il libro che ha aperto Gli anni in tasca Graphic, la nuova collana di Topipittori. La trama del racconto a fumetti è un tornare con la mente all’infanzia: ricordi, emozioni e gioie vengono recuperati e modellati con la matita che ne traccia le figure. In questo modo conosciamo i sogni dei bambini, vediamo la famiglia dell’autrice, capiamo le paure, le speranze e le aspettative di una bambina che oggi si volta indietro per raccontarsi ad altri bambini.