"Casa nostra": sintomatologia d’un paese sofferto.

Giulio Gasperini

ROMA – Sottotitolo: Viaggio nei misteri d’Italia. Niente più Italienische Reise, niente più Grand Tour. Adesso il viaggio, in Italia, non si compie più da una meraviglia all’altra, da uno splendore all’altro, da un gioiello all’altro; l’Italia si percorre da un mistero all’altro: che poi di mistero non ci rimane più niente, perché anche del sommerso tutti sospettano tutto. Camilla Cederna ci fa consapevoli, con la sua raffinata ironia, che tutto ci riguarda, perché tutto è “Casa nostra” (Mondadori, 1983), in quest’Italietta che si dibatte, a poco più d’un secolo dalla proclamazione della sua Unità, tra il secondo boom economico (quello illusorio, dei primi anni ’80) e le strategie (e le tattiche) di quotidiana sopravvivenza. In realtà, mano a mano che l’indagine della grande giornalista si sposta verso il meridione d’Italia, capiamo che si tratta di un libro sulle mafie, una sorta di prodromo del più attuale Gomorra.

Perché la mafia, in ogni sua forma, è storia antica, per l’Italia: una storia anche di folklore, di calore (e colore) umano, persino con qualche risvolto grottesco (perché comico, ahimé, non si può dire).
Quanto costò farne l’Unità, dell’Italia? Quali conseguenze comportò? Quali furono le soluzioni adottate per superare gli ostacoli? La Cederna, con la sua scrittura incalzante di ragionamenti serrati e disarmanti, considera la delicata situazione del sommerso, del parastatale, dello statale che si infetta, dei legami oscuri che si instaurano tra chi approfitta e chi viene sfruttato, tra chi ha i soldi e chi ne ha bisogno, tra chi comanda e chi esegue.
Quello della Cederna diventa un vero e proprio catalogo di morti, di crimini, di cadaveri: un flusso inarrestabile di sangue che non conosce dighe né argini, che si infiltra distruggendo ogni parvenza di legalità, di norma, di sicurezza. La Cederna indaga, creando un giornalismo d’inchiesta che è anche elegante prosa, raffinata costruzione verbale e periodica. Ma l’argomento, per gli italiani, è vecchio come il mondo, la questione dibattuta infinite volte e mai giunta a una conclusione. Perché l’omertà, la reticenza, la diserzione, la latitanza (di uomini e istituzioni) sono atteggiamenti che ci han sempre caratterizzato, anche oltre quel lontano 1848, anno così cruciale e determinante per le vite di coloro che saranno chiamati, a tutti gli effetti, in ogni documento e ogni legge, “italiani”.

"Torte Therapy" deliziose tentazioni

Marianna Abbate
ROMA – Vi sentite un po’ giù? L’influenza primaverile vi ha colpito? Soffrite un po’ il cambio di stagione? Quale trattamento migliore che una cura a base di dolci? Mousse, budini, ciambelle e crostate alla frutta, plum cake, bavarese al Marsala, salame di cioccolato, tiramisù allo zabaione, strudel di uva e mele, semifreddo alla vaniglia, rotolo nocciolato, meringata alla frutta sono solo alcune delle ricette contenute in Torte Therapy, il manuale pubblicato da Gribaudo Editore.

Si conoscono da tempo le qualità “curative” della cioccolata, e le ricette contenute in questo libro ne contengono molta, insieme a panna creme e mousse strepitose che sicuramente vi miglioreranno l’umore.
Troverete ricette facili e veloci per fare bella figura con gli amici, ma anche sfiziose torte e ricette un po’ più complesse dedicate alle pasticcere (e ai pasticceri) più esperti. Qualunque sia la vostra scelta il risultato è assicurato: l’allegria e il buon umore non vi mancheranno più. E allora cosa aspettate? Mettete a scaldare il forno e tirate fuori le coppette colorate. Inizia la terapia a base di dolci!

"Come eliminare i giornalisti (senza finire in prima pagina)", provateci!

Giulia Siena
ROMA – “Questo è un manuale di autodifesa. E non sorprenda il fatto che a scriverlo sia un giornalista. In oltre trent’anni d’attività ho conosciuto molti colleghi e di ognuno ho cercato di mettere a fuoco pregi e difetti.” Per essere solo all’introduzione, il libro del giornalista salernitano Gabriele Bojano, “Come eliminare i giornalisti (senza finire in prima pagina)”, promette svariate sorprese. Pubblicato il mese scorso da Mursia, il dissacrante libro o il “divertente pamphlet”- come lo ha definito Maurizio Costanzo nella prefazione – racconta la figura del giornalista attraverso 50 prototipi ben definiti di professionisti del settore. Bojano suddivide il libro in nove parti e, in ognuna di esse, descrive giornalisti caratterizzati da pessimi comportamenti professionali, sociali e umani.
Così, il mestiere più difficile del mondo (difficile più degli altri poiché spesso se non sei raccomandato non lavori, invece quando il giornalista lavora non viene riconosciuto come tale, quindi, non viene retribuito o sottopagato) è in mano a gente strana che si comporta in modo strano e ha pretese strane. Dal “giornalista hulk”- facile agli isterismi – al “giornalista glocale” – totalmente dedito agli scoop casalinghi del suo piccolo paese da non accorgersi del resto del mondo – passando per il “giornalista dinasty” – designato dagli dei come continuatore della stirpe giornalistica – fino al “giornalista oh happy day”- per il quale c’è sempre un motivo per festeggiare. Ognuno di loro presenta diversi motivi per irritare conoscenti e colloghi che di solito incontra sulla sua strada, ma un modo per eliminarli c’è: Bojano ne suggerisce uno per ogni tipologia di giornalista. Provare per credere!

"Fare l’autore per la tv", da Eurilink il saggio di Maurizio Gianotti

Silvia Notarangelo
Roma Scrivere per la televisione, trasformare una passione in lavoro: è questa l’aspirazione di quanti ambiscono a diventare autori televisivi. Ed è a loro che Maurizio Gianotti dedica il saggio “Fare l’autore per la tv”, pubblicato da Eurilink.
Certamente quella dell’autore non è una professione facile, il lavoro, soprattutto all’inizio, è discontinuo, soddisfazioni e riconoscimenti si alternano a “sconfitte” che, talvolta, possono sembrare ingiuste o immotivate. Se a ciò si aggiunge l’effettiva difficoltà che si incontra nel provare soltanto ad avvicinarsi all’universo televisivo, forse chi ha intenzione di intraprendere questa professione farebbe meglio a ripensarci. Eppure, ultimata la lettura del libro di Gianotti, le conclusioni che ne derivano lasciano più di qualche spiraglio.

Infatti, pur senza fare mistero di insopportabili “inciuci” che caratterizzano l’ambiente, l’autore non scoraggia i suoi lettori, anzi, tenta di spronarli, mettendo a loro disposizione la propria esperienza sul campo unita ad una serie di utili suggerimenti. Non solo, ripercorrendo alcuni momenti salienti della sua carriera, riesce a dimostrare, in modo convincente, come qualunque genere televisivo, telepromozioni incluse, possa diventare un banco di prova per sperimentarsi e lasciare spazio alla creatività.
Ma, che cosa bisogna fare, concretamente, per affermarsi come autore?
Prima regola, forse scontata ma non banale, è saper scrivere correttamente in italiano. Perché se è vero che le idee, lo stile, la forma possono maturare e migliorare nel tempo, la correttezza grammaticale è requisito basilare e indispensabile.
Consiglio numero due: la voglia e l’entusiasmo non bastano, vanno messi in pratica. Per questo occorre, oggi, presentarsi ad un’emittente televisiva potendo vantare una qualche, seppur minima, esperienza. E allora, perché non armarsi di telecamera e pc per girare, autonomamente, un corto, un promo o un numero zero?
Attenzione, infine, a non commettere l’errore di disdegnare la radio, la cui programmazione, al contrario, offre l’opportunità di cimentarsi con la stesura di testi e, magari, affinare anche preziose competenze musicali.
Un’ultima raccomandazione: tenere gli occhi aperti e attingere dappertutto, perché qualsiasi storia, qualsiasi persona con cui si è venuti a contatto può rappresentare uno spunto da sviluppare in ottica televisiva e/o cinematografica. L’autore, in fondo, come precisa Gianotti, è e resta “uno scrittore” chiamato a mescolare sapientemente “realtà e sentimento”.

"La leggenda dell’Olivo", l’amore si intreccia alla storia della terra

Giulia Siena
ROMA – Una lettera dal sud per non dimenticare i colori, il calore e le storie del paesaggio pugliese. Tema della lettera, destinata a un amico lontano, è l’ultima leggenda narrata dal nonno prima che partisse per un lungo viaggio. Così comincia “La leggenda dell’Olivo”, un racconto di Vito De Benedetto, illustrato da Liliana Carone e pubblicata da Lupo Editore. Il protagonista, Eulus, è un musico che vaga per valli e pianure regalando piante e prosperità attraverso la magia del suo flauto melodioso. In una notte di plenilunio incontra la bella fanciulla Oliva della quale si innamorerà perdutamente, ma entrambi cadranno vittima di un malefico tranello.  

Intervista a Minervino, dalla mostrificazione alle bellezze mozzafiato di una Calabria ancora carica di ardori e di nuove speranze

Alessia Sità
ROMA – Alcuni libri necessitano di un approfondimento, di una lente di ingrandimento puntata tra le righe del romanzo, per questo ChronicaLibri oggi propone l’intervista al professor Mauro Francesco Minervino, autore di “Statale 18” pubblicato da Fandango.
Che ruolo ha per lei la scrittura nell’esprimere un disagio?
Non credo che la scrittura (che può anche essere una buona cura per l’anima) debba curare il ‘disagio’ di chi scrive letteratura. Io non ho mai scritto un rigo per dare sfogo a un disagio personale, a qualcosa che appartiene alla mia psicologia individuale. Io scrivo per raccontare. Per provare a capire. Non da solo, ma insieme a chi legge. Parto sempre da un’esperienza, da un’urgenza di testimonianza e di confronto con ciò che vedo, con ciò che accade nella realtà. Anche se non escludo mai un mio punto di vista personale, non mi interessa limitare ciò che scrivo ad aspetti personali. Scrivere è sempre un atto di responsabilità che implica il rapporto di un sé con un altro, una forma congiuntiva, un incontro che unisce l’autore alla realtà, a persone diverse, alla verità del mondo. Scrivere è pur sempre tentare di dare una forma al caos, il tentativo di portare a ragione quello che la ragione rifiuta o nasconde. Per me raccontare persone e luoghi difficili, e tuttavia amati, di una Calabria che qualcuno già considera un pezzo d’Italia perduta, equivale a un rifiuto delle generalizzazioni e delle ovvietà mediatiche. Scrivo contro i pregiudizi che da lontano avvolgono la realtà del sud; il mio è un tentativo di fare chiarezza senza mai nascondere le nostre responsabilità collettive nei confronti di ciò che accade.
Cosa l’ha spinta a scrivere “Statale 18”?
I miei viaggi da pendolare su questa strada. Il fatto di vivere in un luogo così. L’idea che raccontare la strada oggi equivale a raccontare il sud nella sua parte più vera e problematica, meno letteraria. Su una strada come la Statale 18 vedi tutte le contraddizioni, la vita reale, che sempre di più è legata al movimento, a una mobilità esasperata e spaesante, a un’economia legata a forme di abuso e di violenza strisciante, sempre meno ancorata alla tradizione e a certe facili consolazioni del passato. Mi ha guidato l’idea che raccontando una strada che tutti conoscono il mio libro potesse aprire a una forma di ribellione, estetica, sentimentale e morale prima ancora che ‘politica’. Quello che vedevo, e che vedono tutti sulla Statale 18, mi colpisce ogni volta che questa strada mi accade di percorrerla. Qualcosa che offende e mortifica lo spirito e impoverisce la vita, la mia e quella di tutti. Un consumo folle di bellezze e di spazio. Il disprezzo per la cultura. Lo sfregio inarrestabile della natura e della storia. Tutto oggi si dispone sulla strada. Nessuno sembra accorgersene. Il fatto è che se cambia l’ambiente e il paesaggio, se cambia la qualità della terra e del mare, se viene avanti il brutto e il cemento conquista ogni spazio libero, diventiamo tutti più brutti e incivili, più poveri, più infelici, più mafiosi, anche se apparentemente questo si chiama ‘sviluppo’. Ma lo sviluppo non coincide con le case costruite, con le automobili che circolano, con la violenza che si insinua nei nostri rapporti sociali, con gli oggetti che compriamo negli ipermercati, con la corsa ai consumi di cui tutti siamo vittime.
Lei racconta e descrive apertamente ed in modo piuttosto chiaro i mali che affliggono la Calabria dalla Calabria, da uomo e da antropologo. La sua è una scelta coraggiosa. Ha mai incontrato difficoltà per questo?
Sì, pago un prezzo personale per essere un autore scomodo. Scomodo per il potere politico e per quello mediatico. Scomodo per quello che scrivo e per ‘come’ lo scrivo. Per i miei libri ho ricevuto importanti premi e riconoscimenti, anche internazionali, ma in Calabria sono stato oggetto di feroci campagne stampa, di diffamazione e di esclusioni (inconfessabili) che danneggiano la mia professione intellettuale e il ruolo che svolgo nel mio ambiente, che è quello dell’università, della cultura e dei giornali. Ma la mia scrittura, la mia libertà non la metto a disposizione di nessuno. Vado per la mia strada, ma resto qui. In questi anni, dopo che un maestro civile di quella che lui stesso chiamava “letteratura delle cose”, Enzo Siciliano, che per primo mi spinse a raccontare queste storie su Nuovi Argomenti, per il mio impegno di scrittore e di intellettuale ho avuto sostegno di personalità come Luigi De Magistris e Angela Napoli, di intellettuali come Gianni Vattimo e Gian Antonio Stella, fino a Roberto Saviano, che di Statale 18 in una recensione su “Tuttolibri” de “La Stampa”, ha scritto cose molto belle di cui lo ringrazio. I partiti, la politica, i calabresi che “contano”, i giornalisti, i colleghi? Ostracismo e una malcelata ostilità, invidie, mugugni e silenzi. Ma ci sono gli studenti, la gente che incontro, quelli che leggono i miei libri e li amano, e molti sono calabresi fuori dalla Calabria.
La “mostrificazione” di cui parla, c’è sempre stata o ha un’origine ben precisa?
Inizia nel dopoguerra con la ricostruzione, un periodo infinito di modificazioni ambientali e sociali, anche positive; penso alle infrastrutture necessarie, alle scuole, agli ospedali, ma anche all’origine di scempi, di facili distruzioni e di speculazioni spacciate per indispensabili opere di sviluppo. Una fase di espansione che da allora non si è più arrestata. Degenerazioni che hanno portato alla mostrificazione attuale del paesaggio che lo specchio di una metamorfosi antropologica che riguarda gli individui e la società, in Calabria e nel Sud. Ma ormai il discorso vale per tutta l’Italia.
Il pregiudizio che si ha del Sud, secondo lei, ha contribuito ad alimentare lo scempio e il degrado non solo paesaggistico, ma anche umano?
Certo, il sud, e i calabresi in particolare, vivono una specie di schizofrenia: per secoli sono stati gli altri a raccontarci e a giudicarci. Col tempo abbiamo assunto e interiorizzato punti di vista che sono sempre mediati dall’esterno. Perciò siamo facilmente inclini agli estremismi, siamo apocalittici o integrati, conformisti o ribellisti. Siamo ossessionati dal problema dell’identità. Oscilliamo tra il disprezzo per noi stessi e la difesa integralistica di tratti regressivi, con l’esaltazione acritica di ogni cosa che ci riguardi. Così abbiamo smesso di osservarci, di descriverci, di tracciare le nostre rappresentazioni e i nostri racconti. E anche di prenderci cura del paesaggio, della natura, della terra, del mare, delle case. La Calabria è una terra di sconfitte silenziose e di violenze eclatanti, di ribelli e di ipocriti, di gente in fuga o rassegnata al peggio. Oggi è da questa dittatura degli opposti che si deve smarcare se vogliamo pensarci moderni e davvero “diversi”: riprendiamo i nostri racconti, ribaltiamoli sul mondo; critiche e autocritiche non lasciamole più agli altri. Amare i luoghi e farne nuovamente ‘dimora’ prendendosene cura, ritornare a essere comunità, non c’è alternativa. La Calabria e i calabresi devono misurarsi con l’autocritica, devono smarcarsi dall’ossessione della ‘calabresità’, da un blocco culturale che è un limite e un regalo fatto a tutti quelli che vogliono mantenere le cose come stanno.
La descrizione che lei fa della sua lezione di antropologia tenuta a Catanzaro è molto eloquente. Ma perché i giovani di oggi, nati e cresciuti in Calabria, continuano a sentirsi estranei? Perché “sembrano essere tutti di passaggio in Calabria”?
Credo che molte responsabilità ricadano sulle generazioni precedenti. Ma oggi spetta ai giovani impegnarsi per il cambiamento. In Calabria dobbiamo tutti ripartire da una serena consapevolezza che il legame con la propria terra non è un atto di fede acritico ma un passaggio necessario verso la consapevolezza. Non è fuggendo che si diventa adulti. E la dimensione del “lontano” ormai nel nostro mondo globale è solo illusoria, fatta apposta per restare ‘provinciali’. Non c’è un altro mondo migliore fuori dalla Calabria. Siamo già nel mondo, e sta a noi invece creare qui le condizioni migliori che cerchiamo altrove, con un nuovo senso civico e nuovi patti di comunità. Il compito della scrittura civile deve essere anche quello di risvegliare i giovani e le coscienze assopite.
Nonostante il suo splendido panorama sul mare, la Statale 18 porta in sé una sorta di inquietudine. Secondo lei è un’inquietudine che solo chi ha vissuto quei luoghi può capire?
No credo che il successo del libro, come anche quello del mio precedente “La Calabria brucia”, dipenda dal fatto che attraverso le narrazioni che riguardano la mia regione io riesca a raccontare come antropologo e scrittore, una condizione che travalica confini e luoghi specifici e che appartiene a una dimensione umana e civile della nostra vita contemporanea. Il degrado è la cifra che unifica tutta l’Italia di adesso. La Calabria è in fondo il laboratorio avanzato di un’Italia che assomiglia sempre più a queste coste sfrangiate, a quest’onda di cemento che in Calabria sembra infinita e travolge e consuma ogni cosa. Paesaggio, cultura, legalità, umanità. E’ così che stiamo diventando tutti più moderni. Il corrispettivo della Statale 18 oggi lo trovi ovunque in Italia; sull’asse del cosiddetto “bilanciere veneto”, sulle coste turistizzate della Sicilia come sulla riviera Ligure da Rapallo in poi, ovunque dove viene meno il senso della civiltà e della bellezza. C’è un senso di smarrimento e di inquietudine sempre più esportabile e universale, in Italia e nel mondo occidentale.
Perché in Calabria “i desideri fanno in fretta a passare e diventano ricordi”?
E’ uno dei paradossi poetici, ma anche il sintomo di una condizione reale, che ho inserito nella prosa narrativa di “Statale 18”. E’ un invito a resistere, a prolungare gli sforzi che ogni desiderio deve compiere per diventare atto. In Calabria c’è chi ristagna nella nostalgia per il passato, nell’immobilità rassegnata. Io credo invece che la nostalgia debba essere trasformata in una forma di passione attiva, qualcosa che serva come il sogno per dare battaglia nel presente. In fondo come diceva Walter Benjamin “solo il fare è un mezzo per sognare, mentre il contemplare è solo un mezzo per rimanere desti”. La letteratura e la poesia illuminano sempre un piano di realtà utopiche ma possibili. Un altro straniero George Gissing, lo scrittore vittoriano, il viaggiatore trasognato e solitario che scrisse della Calabria della fine dell’Ottocento, povera, umile ma ancora carica di ardori e di nuove speranze, piena di grazia popolare e di bellezze mozzafiato, scrisse che “qui è più bello vivere”. Non dovremmo dimenticare mai parole come queste qui al Sud e in Calabria.
Per completare il quadro della situazione, pensa di scrivere qualcosa anche sulla Statale 106 Jonica, un altro tratto di strada tristemente noto per la situazione di precarietà in cui versa da troppo tempo?
No, lo farà qualcun altro se ne ha voglia. La strada è un tema interessante, ma non ho scelto di ‘specializzarmi’. Io scrivo solo i libri che un certo tipo di ricordi, di percezioni e di esperienze mi impongono di scrivere. E il prossimo libro sarà un romanzo sugli anni ’90, il decennio cruciale della mia vita d’uomo e un periodo che rappresenta la fine di certi tempi di attese, di passioni e di grandi speranze per una generazione come la mia. L’inizio di una presa d’atto della realtà e della vita così com’è, ma per cui vale ancora la pena di battersi, per quanto dura e ostile sia la realtà di oggi.
Tre parole per definire il suo libro
Doloroso, sincero, bello. Parole che quando si ama sono indispensabili per dire la verità.

Concorsi letterari: il bando di Historica Edizioni

ROMA Il Gran Premio Due Vittorie è un concorso letterario ideato da Historica Edizioni e rivolto a tutti gli autori di racconti. Per partecipare è sufficiente iscriversi al sito e scrivere un’e-mail a: granpremio@scrivendovolo.it allegando il proprio racconto, i propri dati e la ricevuta di iscrizione. 
Il Gran Premio ha inizio il 1° marzo e terminerà il 30 giugno. La lunghezza massima degli elaborati è di 15 cartelle (ciascuna cartella conta 2000 battute spazi inclusi). 
L’iscrizione al Gran Premio Due Vittorie darà diritto a:
-Pubblicazione del proprio racconto nella classifica di Scrivendo Volo;
-Parere di un esperto, editor professionista, attraverso la scheda di valutazione del proprio racconto;
-Possibilità di vincere un premio in denaro con un montepremi di 1000 euro;
-Possibilità di vincere una pubblicazione con Historica Edizioni;
-Sconto del 30% su tutto il catalogo di Historica Edizioni.
Per maggiori informazioni sul regolamento si può visitare il sito www.scrivendovolo.it.
Scrivendo Volo è il sito internet dedicato a tutti gli amanti della scrittura e della lettura. L’iscrizione gratuita al sito permette di ricevere ogni settimana la rivista di Scrivendo Volo. L’obiettivo del sito internet è quello di creare un luogo di incontro virtuale dove aiutare, sostenere ed incoraggiare tutti coloro che si affacciano al mondo della scrittura attraverso il parere di esperti e il confronto con i vari autori. Fiore all’occhiello del sito è la sezione dedicata al Gran Premio Due Vittorie. A completare il sito le sezioni Libro del mese e Servizi Editoriali, questi ultimi rivolti a tutti gli scrittori che desiderano ricevere indicazioni e suggerimenti per accompagnare il proprio manoscritto dalla fase di valutazione, alla correzione bozze ed editing, fino alla consulenza nei rapporti con le case editrici.
Per informazioni: info@scrivendovolo.it
Per contattare la redazione della rivista: redazione@scrivendovolo.it
Per contattare il direttore della rivista: direttore@scrivendovolo.it
Per informazioni o per iscriversi al Gran Premio: granpremio@scrivendovolo.it
Il sito ufficiale di Historica Edizioni: www.historicaweb.com

Bompiani: Federica De Paolis,”Ti ascolto” chiudere gli occhi e vivere con le storie degli altri

Giulia Siena
Roma E’ strano leggere le movenze, i pensieri e gli atteggiamenti di un uomo dalla penna di una donna: le sensazione che percepisci sono aspre, dirette, proprio come le racconterebbe un uomo, ma si intersecano a descrizioni sentimentali e precise proprio come quando è la donna a raccontare. Questo è il terzo libro di Federica De Paolis, “Ti ascolto” edito da Bompiani.

Diego, il protagonista, peregrino perenne in fuga da qualcosa, deve fermarsi nella casa di famiglia senza nessuno che si prenda cura di lui. La monotonia del silenzio in cui è costretto viene spezzata dallo squillo del telefono: non c’è bisogno che le sue parole precipitino sulla cornetta, è il ricevitore che invoca ascolto. Il filo del telefono collega inaspettatamente Diego con i delicati intrecci di vite degli altri. Amicizie, storie, amori e sofferenze entrano nella cornetta del telefono per farsi ascoltare senza un nome e vivere senza un volto.

 

Così, le vite degli inquilini del suo stesso palazzo diventano anche la storia di Diego. Lui vuole vivere attraverso l’ascolto, celandosi dietro la sua buffa mascherina con la quale si aiuta a schermire la luce. Le storie degli altri lo coinvolgono, lo rinnovano, lo spronano a mettersi in gioco e a entrare nelle altre vite come un bisogno. I tasselli si riuniranno e il romanzo non smetterà di sorprendervi fino alle ultime righe dell’ultima pagina.
Fermarsi e chiudere gli occhi porta all’ascolto, regala quiete e riflessione: da qui alla decodificazione in parola è stato un passo semplice per una narratrice attenta come Federica De Paolis. La sua scrittura è compatta nello stile e agile nel gestire il congegno narrativo; in questo modo il lettore ha il posto da spettatore d’onore.

"Diario di un gatto con gli stivali", l’interessante libro di Roberto Vecchioni

Stefano Billi
Roma “Niente è come appare, ragazzo, soprattutto per l’uomo che è di per se già apparenza”.
Aveva ragione Palissandro di Trezene, nei suoi Ta Antikeimena, a sostenerlo, e ha quanto mai ragione Roberto Vecchioni a ribadirlo nel prologo del suo libro, “Diario di un gatto con gli stivali” (Einaudi, 2006).
Infatti sempre più spesso la realtà quotidiana ci si mostra sotto innumerevoli sfaccettature, e sempre più spesso siamo tentati di andare alla ricerca di una non-realtà, ovvero di crearci degli alibi oppure delle giustificazioni che di tale realtà vorrebbero farsi manifestazione.
Ed è per questo che nascono le favole: esse rappresentano le nostre psicologie, celano le nostre paure e mettono a nudo tutti i nostri desideri e le nostre passioni.
Nel suo libro, Vecchioni – da cantautore e cantastorie quale egli è – si diverte a reinterpretare le fiabe più tradizionali, mischiando le carte in tavola, nell’accattivante gioco di stravolgere i ruoli e le sorti dei buoni e dei cattivi: e così le principesse si annoiano, i principi azzurri divengono uomini e i gatti con gli stivali tengono diari come gli adolescenti.
Superficialmente, questo libro sembra adatto ad un pubblico di bambini, ma se lo si legge sotto la giusta luce rivela quel gusto del contrario e quell’incertezza che talvolta contraddistinguono la nostra vita.
L’unico difetto che si può riscontrare nel testo consiste nell’utilizzo di una terminologia un po’ troppo verace, immediata e grottesca, pur tuttavia mai esageratamente volgare ed irrispettosa nei confronti del lettore; con grande abilità, l’autore sa ben risollevarsi da questi momenti per riprendere le sorti del discorso in maniera assolutamente originale ed inaspettata.
Il “Diario di un gatto con gli stivali” è un libro davvero appetitoso, ideale per quei palati letterari alla ricerca di storie vivaci e divertenti.

"Barbecue", piccola guida alle grigliate di carne, pesce e verdure

ROMA Tutto cominciò nel Sud degli Stati Uniti dove il barbecue era un mezzo di aggregazione, un rituale e una festa. Oggi in tutto il mondo “barbecue” è sinonimo di cena all’aperto, convivialità e buona carne. Ma dietro all’arte di “cuocere con il fuoco” c’è molto altro; a spiegarci tradizione, diffusione e ricette per hamburger, pesce e costolette di manzo c’è “Barbecue. Piccola guida alle grigliate di carne, pesce e verdure”. Pubblicato da Astraea nella collana The Little Black Book, il libro di Mike Heneberry guida il cuoco-lettore all’esplorazione di attrezzature, tecniche di accensione, metodi di cottura e suggerimenti per la preparazione dei cibi. Importante spazio è stato dedicato alle ricette: dalle salse, alle spezie, ai diversi tipi di carne, pesce e verdure da fare alla griglia. Un prezioso manualetto, pratico e raffinato, ideale per un regalo o un acquisto d’impulso.

Ogni sabato leggi la ricetta di “Chronache Culinarie” su Chronica