Marco Saya Edizioni: Aritmia e il suono dopo le parole
Giulia Siena
PARMA – Elena Mearini scrive e torna a scrivere di poesia. L’autrice milanese che ho avuto modo di leggere in precedenti volumi di narrativa e poesia, è uno degli esempi più lampanti (nel panorama italiano contemporaneo) di come si possa scrivere di ogni cosa con competenza, ma di come si riesca bene in uno dei campi universalmente più ostici, la poesia. Con Aritmia, raccolta poetica pubblicata da Marco Saya, Mearini ci ricorda che è nella poesia che la sua voce si fa più intensa, netta e riconoscibile (“Ognuno di noi sa / con quale passo falso / si è reso vero”).
Nelle pagine di Aritmia, nei versi brevi e gravosi di senso, la poesia diventa esigenza corale di riflessione e ascolto. Le parole – nate durante il periodo di lockdown – escono come generate dall’azione creativa di Elena e racchiudono sospensioni, interrogativi e riflessioni di un’intera comunità. Milano, sullo sfondo e protagonista, è avvolta da un ovattato silenzio, una sorta di coperta protettiva nella quale si cerca rifugio e lo si trova. Milano stanca e sorniona, ha perso la fretta con la quale abbiamo imparato a conoscerla, è ora in una realtà labile e totalmente rinnovata (“Milano si sdraia / con la faccia a terra, / peccato che perda / tutto questo sole”).
Elena Mearini osserva e si fa – come nel più classico tra gli obiettivi del poetare – testimone di fratture, luci, rumori, cambiamenti e movimenti di una società sempre più in affanno.
“Con il tempo, / diventiamo lacrime autonome. / Ci asciughiamo senza fazzoletto, / prima ancora / di cadere giù dagli occhi”.
La poesia, veloce e diretta, è affilata e consapevole, unica cura per gli scompensi di lucidità e di una realtà mutevole e bugiarda. La frequenza aumenta andando avanti con le pagine, prendendo la misura delle proprie lacerazioni e dei propri bisogni. La poetessa è colei che percepisce e rende a parole ciò che internamente avverte. Tra i versi sono vicinissime distanze e semplici i residui di quotidianità e di vita.
“Mi prendo cura / dell’ultima me che resta / affinché non si allontani”.