Giulio Gasperini
AOSTA – Hilde Domin ha trascorso la sua vita in fuga, migrando di città in città, di nazione in nazione; di cultura in cultura: dalla Germania dei suoi padri ebrei a Roma e Livigno, dall’Inghilterra alla Repubblica Dominicana. La sua produzione poetica, fiorita negli anni di questo lungo esilio, fu per lei il tentativo concreto di difendersi dalla disgregazione e dall’ansia della persecuzione. Del Vecchio Editore ha intrapreso il “Progetto Domin”, la ripubblicazione delle sue poesie più interessanti e significative; nella collana Poesia è uscito, per questo, nel 2013, “Alla fine è la parola / Am Ende ist das Wort”. Questa antologia poetica raccoglie i componimenti più significativi e potenti delle sue raccolte, in particolare da “Solo una rosa a sostegno” e “Rientro delle navi”.
La lontananza è la materia feconda della tensione poetica della Domin, l’addio e l’abbandono ne sono costanti alimenti: “Scherziamo con gli addii, / collezioniamo lacrime come biglie / e proviamo se i coltelli tagliano”. Il verso della Domin è breve, estremamente asciutto, fiorito di parole quotidiane e piane, dense di significati e di prospettive: “Alla fine è la parola, / sempre / alla fine / la parola”. Una parola che, però, è costantemente frustrata dalla transumanza, dal percorrere terre straniere, dove si parlano altre parole, dove i concetti sono magari gli stessi ma incomprensibili a un primo ascolto: “Di dimora in dimora / oblio. / Il tuo nome / diventa qualcosa di estraneo”. La sua condanna è inesorabile, manca di difesa concreta: “Sono la straniera, / che parla la loro lingua”.
Tra le figure poetiche più intense ci sono sicuramente gli alberi, che si concretano come fondanti correlativi oggettivi: ogni diversa specie, attentamente nominata e individuata, ha un valore e un significato particolare, dalla distanza alla dimenticanza, dal ricordo al bisogno di vita: “Sono stata qui. / Passo, / senza traccia. / Gli olmi sulla strada / mi fanno cenno al mio arrivo, / un saluto d’oro verdeblu / e mi dimenticano / prima che vada oltre”. L’esistenza è, per Domin, leggera e senza peso, quasi volesse non provocare il minimo rumore, il più inatteso fastidio: “Prendi in mano una candela / come nelle catacombe, / la piccola luce respira appena”; anche in amore: “Il tuo nome sulle mie labbra, / sempre ai bordi dell’urlo, / non deve cadere a terra”.
Suo desiderio ultimo è sentirsi a “casa”, nutrendo il bisogno intimo di una terra con la quale poter avere un legame di profonda corrispondenza intima: “E da ciò riconosci / che qui / sei un po’ più / a casa / che in altri luoghi”. Hilde Domin ha, allo stesso tempo, bisogno di un forte ancoraggio a una terra che sia luogo definitivo (“Costruiscimi una casa”; “Le stanze in cui metterò le rose / perché ci sia qualcosa di mio”) ma conosce anche il bisogno di saper individuare, nelle lontananze, delle immagini comuni, delle esigenze universali: “Ovunque il fieno / accatastato in modo diverso / ad asciugare / sotto lo stesso / sole”.
Il ritorno è la sua ansia, la sua più forte tensione emotiva: “Vado / verso un’isola senza porto, / butto in mare le chiavi / già alla partenza. / Non arrivo da nessuna parte. / La mia vela è come una ragnatela al vento, / ma non si strappa. / E oltre l’orizzonte, / dove i grandi uccelli / asciugano le ali al sole / alla fine del volo, / c’è una terra / dove mi si deve accettare / senza passaporto, / con l’avvallo delle nuvole”. Se il migrare coatto, costretto, ha in sé un’idea struggente di vergogna (“Chi ha pianto sulla soglia di casa / come neanche un mendicante straniero. / Chi ha passato le notti sulle assi / a fianco del proprio campo. / Chi ha pregato i morti / di distogliere lo sguardo dalla sua vergogna”), il ritorno nutre in sé la scintilla della felicità: “Tu non sali. / La felicità non è un aereo, / non ha orari / né aeroporti. / È un grande uccello / che ne accoglie uno piccolo / sotto le sue ali”. Perché spesso ogni migrazione è, in realtà, un doloroso esilio.
“Alla fine è la parola” che fa sopravvivere agli esili.
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