Giulia Siena
PARMA – Adua porta con sé la sua Somalia. Lo fa ogni giorno anche senza saperlo; lo fa anche ora, ferma, in piedi di fronte a una statua di pietra nel centro di Roma. Ora Adua racconta a quell’elefante scolpito nella pietra dal Bernini della sua casa a Magalo e della possibilità di tornarci dopo molti anni trascorsi in Italia, in una città eterna che le ha rubato il cuore e tutti i sogni.
Adua è la storia di una migrazione, di più vite e storie che si intrecciano raccontate con maestria e consapevolezza dalla giornalista e scrittrice Igiaba Scego. Pubblicato qualche settimana fa da Giunti, il libro è una narrazione a due voci che percorre i sentimenti e le esperienze dei due protagonisti. I personaggi, carismatici e complessi, ripercorrono la storia, dagli anni Trenta del Novecento agli attualissimi del nuovo Millennio, narrandone le vicende più intime e dolorose.
Adua, figlia di Zoppe e Asha la Temeraria, ha smesso di credere nell’amore nella notte in cui ha dovuto abbandonare la foresta e tornare a vivere con quel padre a lei sconosciuto, quello stesso Zoppe che continuava a ripudiare Asha, la moglie che non ha saputo far altro che morire. Zoppe era schivo; Adua era schiva. Zoppe non credeva più nel mondo; Adua era assetata di mondo. Zoppe aveva conosciuto la bellezza e la tragicità dell’Italia; Adua mirava alla bellezza e alle speranze che l’Italia offriva. A diciassette anni, appena prima di finire la scuola, Adua rincorre il suo sogno incontrato nel primo cinematografo della città, diventare la nuova Marilyn Monroe; si vende, così, al miglior offerente. Nera, bella, seducente, Adua arriva a Roma per diventare una grande attrice ma baratta i suoi sogni con la propria dignità. La “Vecchia Lira” – come vengono chiamate le donne giunte in Italia durante la diaspora somala degli anni Settanta – si trova a fronteggiare i giorni, i fantasmi del passato e le difficoltà del presente e, intanto, “compra” una tranquillità e un amore apparente accogliendo e sposando un giovane sbarcato a Lampedusa. Questa è la storia che l’elefantino in marmo di Piazza Santa Maria sopra Minerva conosce; conosce anche quella di Zoppe, che anni prima percorreva le stesse strade da uomo a servizio dei più forti. Padre e figlia, così diversi, così uguali. La loro storia è la storia di una terra che ha subito irruzioni e abbandoni, fughe e ritorni.
“Ti ho dato il nome della prima vittoria africana contro l’imperialismo. Io, tuo padre, stavo dalla parte giusta. E non devi mai credere il contrario. Dentro il tuo nome c’è una battaglia, la mia…”