Marianna Abbate
ROMA – Il cibo razionato, i negozi con gli scaffali vuoti, solo aceto in vendita. 20 dollari al giorno per rimanere nel tuo paese, se hai sposato uno straniero. Sono racconti che ho sentito mille volte, da mia madre, ancora incredula e triste, e da mio padre, che ne parla come se fosse una barzelletta. Ma la Polonia dei tardi anni Ottanta sembra il paradiso se confrontata alla Romania di Nicolae Ceausescu. “Compagne di viaggio, racconti di donne ai tempi del comunismo”, pubblicato da Sandro Teti Editore, ci avvicina un po’ a questa storia.
Ho sentito delle storie anche sulla Romania, paese di origine della mia adorata insegnante di violino. Erano terribili, per quanto si possa raccontare ad una bambina. Quello che mi è rimasto impresso è che per parlare di politica a casa si usava aprire il rubinetto dell’acqua per coprire le voci. Perchè non ti potevi fidare di nessuno, i tuoi stessi familiari potevano essere spie, ma soprattutto potevi essere certo di avere delle ricetrasmittenti nascoste in casa (fatto che si è poi confermato durante un rinnovo della casa negli anni Novanta: il telefono era sotto controllo).
Ero, dunque, abbastanza preparata nell’approcciare questo libro. Ma il brivido gelato non mi ha risparmiato, quando ho letto delle donne uccise perché avevano abortito, dei chilometri fatti con buste pesantissime al gelo, delle file interminabili per comprare del cibo. Della lotta infinita per trovare del combustibile durante gli inverni più freddi.
Sono diciassette le scrittrici che hanno voluto condividere la loro esperienza con il comunismo. Ognuna di esse aveva a cuore qualcosa di diverso, ma il mondo che vivevano voleva uniformarle a tutti i costi. Indossavano tutte le stesse mutande bianche, le stesse calze. Non potevano truccarsi, semplicemente perché non c’erano trucchi. Sembrano stupidaggini, in un Paese dove la gente veniva uccisa per un nonnulla; ma la morte ha diversi volti e uno di questi è sicuramente la depersonificazione tramite l’uniformazione- come avveniva nei lager.
I racconti non sono lagnosi, non sono pregni di quell’idealismo astratto che piace tanto agli uomini. Sono storie di donne che dovevano comunque sopravvivere, che sapevano ridere delle proprie disgrazie. E cavarsela. Sempre.