Giulio Gasperini
AOSTA – Il 1790 fu anno cruciale, per l’Austria e il suo impero. Morì Giuseppe II, sovrano “illuminato” e attento alla cultura come manifestazione di prestigio e di potere. Leopoldo II ne prese il posto, deludendo le attese: al potere imperiale non riuscì a esser così liberale come durante il suo granducato in Toscana (per primo nel mondo, abolì la pena di morte nel 1786). Il sospetto, l’ansia, la fobia delle rivolte corrompono non soltanto il sistema politico, ma investono anche la cultura e i suoi rappresentanti; in particolare, coloro che della libertà di espressione e di seduzione han fatto le loro bandiere. Lorenzo Da Ponte è l’emblema di come la cultura, in ogni luogo e in ogni tempo, sia sempre stata vista con diffidenza da chi detiene il potere e sa (generalmente) che è pericolosa, perché fa sapere troppo. Ma veramente soltanto questi sono i motivi della caduta in disgrazia di Da Ponte, scelto da Giuseppe II come poeta di corte? Può esser stata fatale a Da Ponte solamente la scelta di libretti arditi e di tematiche scottanti? Può essergli costata la tranquilla e rispettata vita viennese solamente la sua liberalità, la lungimiranza e il suo spirito libertino? Rossana Caira Lumetti, nel suo testo “Da Ponte esiliato da Vienna” (Aracne editrice, 1996), getta una luce importante nella vicenda, presentando anche dei documenti inediti in italiano, tra cui un pamphlet, “Anti – Da Ponte”, nel quale si descrive un immaginario processo contro il canonico trevigiano, reo, tra le altre accuse, di aver copiato numerose opere di suoi colleghi.
La studiosa sottolinea come le motivazioni dell’allontanamento di Da Ponte da Vienna, che fecero cominciare i suoi peregrinaggi in tutta Europa per poi concludersi nei neonati Stati Uniti (dove fondò la cattedra di letteratura italiana alla Columbia University), furono ben più numerose e varie. Alla base, persino un odio personale: Da Ponte dimostrò subito le sue spiccate capacità imprenditoriali, entrando in contrasto con personalità di spicco della cultura viennese, tra i quali il Rosenberg e l’Orsini; ma anche con i grandi poeti della corte, in particolare con Casti. Da Ponte fuggì le unità aristoteliche, rinnegandole come materia gretta e inutile; mise in scena personaggi libertini e spregiudicati, quasi prendendo a modello i grandi personaggi del ‘700 europeo, che per l’ultima volta furono italiani (sé stesso, Casanova, Cagliostro); cercò un coinvolgimento del pubblico anche a livello metanarrativo e musicale, attraverso continue allocuzioni e apostrofi al pubblico in sala. Fatale fu per Da Ponte il nuovo senso di maggior disinvoltura e spregiudicatezza nell’arte e nei suoi allestimenti che stava cominciando ad affermarsi negli intellettuali di fine ‘700, in un’epoca che traghettò alla fine del mecenatismo e della commissione, e attestò la nascita della cultura come mestiere autonomo e indipendente.
Da Ponte e Vienna: quando la cultura era più che politica.
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