Giulio Gasperini
AOSTA – Anche una canzone è stata composta per ricordarla; per ricordare proprio il momento in cui si arrese alla solitudine e cercò una pace duratura nelle acque del Mar de la Plata. Alfonsina Storni nacque nel 1892 in Svizzera, nel cantone italiano, e la sua prima lingua fu l’italiano; poi, seguendo i genitori, approdò ancora inconsapevole a Rosario, nell’Argentina, paese al quale legò il suo destino e la sua cultura ma anche la sua sofferenza (“Perché fra le tue strade, unte come il tuo fiume, / che è velato, brumoso, è cupo e desolante, / quando giravo a lungo, io ero già sepolta” scrisse in onore di Buenos Aires). Alfonsina Storni fu donna coraggiosa e tenace, amante dell’arte in tante declinazioni: fu attrice, maestra “rurale”, scrittrice, corrispondente, organizzatrice delle biblioteche socialiste. Fu madre senza marito né compagno, viaggiatrice curiosa di conoscere, più che di contatto umano, verso il quale fu sempre diffidente e sospetta, schiva in difesa del suo anonimato personale, della consapevolezza inderogabile di quanto ognuno di noi sia nullità: “Il giorno che io muoio, la notizia / deve seguire pratiche usuali / e di ufficio in ufficio nei registri / al punto suo io sarò rintracciata. // Molto lontano, là, in un paesino, che al sole su nella montagna dorme, / in un vecchio registro, sul mio nome, / mano che ignoro tirerà una riga”.
La sua poesia fu spietatamente autobiografica (“La penna ha catturato momenti della vita, / momenti della vita che fuggirono presto / momenti con impressa la violenza del fuoco / o più leggeri furono che boccoli di spuma”), fiera della sua condizione femminile anche se non femminista (“Non sono pietra / non sono montagna. / Sono solo una donna: / che volete ce faccia?”). La fragilità umana fu un suo tratto distintivo che pervadeva ogni sua parola poetica, ogni sua composizione lirica: “In verità a morir, da quando è nato, / questo buon cuore si va allenando, / prove di dramma non assimilato; / così vive, cadendo e rialzandosi”; ma Alfonsina non rifiutò mai la lotta, l’adesione a un ideale che fosse anche vita attiva, comportamento pratico e pragmatico, in un secolo accelerato di violenze e accadimenti: “Per andar dietro al ritmo delle cose, / di un secolo nervoso a volte volli / pensiero e lotta, vita di quel che vivo, / essere al mondo breve vite in più”. Il fare fu vocazione, fu istinto e imperativo: “Sì, io mi muovo, vivo, nell’equivoco / acqua che corre e si tramescola sento / vertigine feroce il movimento: / fiuto le selve, a nuove terre arrivo”; ma il bisogno di solitudine fu incontrastabile, insaziabile: “Lasciami sola: odi, i germogli rompono… / ti culla di lassù piede celeste / e un passero ti segna alcuni accordi // perché dimentichi… Grazie. Una preghiera: / se al telefono chiama un’altra volta / digli che non insista, non ci sono…”.
La destinazione privilegiata di Alfonsina fu al di là di tutto quella dell’amore: “Ma prigioniera a un sogno seduttore, / del mio istinto tornai al pozzo oscuro, / così, insetto qualsiasi, accidioso / e vorace, io sono nata per l’amore”. La tensione allo spasimo, il desiderio che non pretendeva concessioni: “E passava l’inverno e non veniva, / e passava così la primavera, / e l’estate di nuovo non moriva, / l’autunno mi avvolgeva con l’attesa”. Ma al termine dell’orizzonte, dove lo sguardo si riusciva a spingere per tornarne colmo di colori e suoni (“mirando i grandi uccelli che migran senza un dove”), c’era sempre l’ombra della fine: “È l’arte di morire cosa dura: / si prova molto e non si impara bene”.
La sua piccola orma – “su pequeña huella” – non tornerà più, dalla candida spiaggia; ma le sue impronte vere sono altre, quelle più indelebili e incancellabili: “Nei miei versi, o viandante, sono assente ed esisto, / perciò mi puoi trovare se col libro procedi / lasciando sulla soglia i tuoi pesi e bilance: / chiedono i miei giardini pietà di giardiniere”.
Le poesie sono tratte da “Alfonsina. 13 poesie e 53 disegni di Gabriella Verna”, Dadò, Locarno 1985