ROMA – Dopo il romanzo breve “La palude e la balera”, Adriano Marenco racconta ai lettori di ChronicaLibri la sua ultima fatica letteraria: la piéce teatrale intitolata “Il pasto degli schiavi”. Il lavoro appartiene alla collana teatrale, “Scenamuta” edita da Edizioni Progetto Cultura, della quale l’autore si occupa come direttore artistico.
Come nasce “Il pasto degli Schiavi”?
In gran parte per caso. Una di quelle situazioni che non sai mai dove finisce la casualità o dove comincia il destino. Dovevo fare un altro spettacolo. Già si era avanti con le prove. Un paio di settimane prima della prima l’attrice ha dovuto rinunciare. Ovviamente è stata bruciata viva. Insomma mi trovavo solo con l’attore. Allora ho cominciato a rielaborare il pezzo per farne un monologo. Provare a salvare capra e cavoli. E mi sono trovato in mano un testo che raccontava tutto quello che sentivo di dover dire sul tema del potere in quel momento. Ma quel momento è valido in ogni tempo. È stata un’esplosione. Ha letteralmente fatto bum. È sgorgato. Tutto il sedimentato interiore di anni è traboccato fuori. Non vedeva l’ora. Come punti riferimento, oltre a quello evidente, ci sono Trujillo, Caligola e Sarah Kane, Thomas Bernhard, Ho cercato di dire tutto quello che avevo sullo stomaco. E’ un monologo forte condensato, tra la preghiera e l’imprecazione.
La condizione di degrado esistenziale descritta in questa piéce si riallaccia in qualche modo alla condizione disumana ampiamente affrontata nel tuo romanzo breve “La Palude e la Balera”?
Il potere è il pasto degli schiavi, esattamente come il cecchino il pasto dei resti umani della palude. In un qualche modo il potere e il cecchino sono due facce della stessa medaglia. essi sono il padrone di quegli altri. Ma in fondo quegli altri lo vogliono. Non saprebbero farne senza. Questo degrado che tu dici è il tessuto del nostro tempo. Quindi è inevitabile che si rifletta nei miei scritti. Il pasto è una vivisezione del potere e soprattutto, e questa è la parte che più mi inquieta, di come il potere sia in qualche modo, oscuro ma imprescindibile, contagioso. Di come il carnefice si attacchi dentro di noi. Per attrazione. Il potere che ci marcisce dentro richiama e vuole quello esterno. Siamo noi che lo cibiamo. Siamo noi che ci cibiamo.
Qual è il vero significato del continuo gioco di buio e luce?
Il gioco buio-luce è solo un entrare e uscire dalle sbarre e da noi stessi. E’ un altro modo per indicare lo scambio tra due cause ed effetti che non possono fare a meno l’un dell’altro. Insomma il carnefice non esisterebbe senza la vittima e viceversa.
Come mai hai scelto il genere del monologo e non hai optato per un faccia a faccia fra il potere e gli schiavi?
Servivano due attori per un faccia a faccia! La verità è che avrei potuto usare uno specchio. Anzi potrebbe essere un’idea per un prossimo allestimento. Il potere è lo schiavo e viceversa.
Perché proprio il potere? Pensi che sia quello il vero male della nostra società?
Il potere non è il problema principale. Il potere è. E’ ineludibile. È le fondamenta della nostra civiltà.
L’uomo in gabbia è la metafora di chi si rinchiude nel proprio apparente benessere protetto dalla ‘sporcizia’ sociale o è il vero ‘schiavo’ del potere che non ha il coraggio di ribellarsi alla logica di un sistema corrotto e spietato?
La gabbia deve permettere di uscire. Le sbarre non possono essere troppo strette. Perché il potere non è ingabbiabile. Lui è talmente forte che può tranquillamente affermare che è lui che si protegge, ma ovviamente come lui può uscire gli altri possono entrare. Egli però è talmente convincente che lui può uscire ma gli altri non arrivano all’evidenza di poter entrare. Lui è già dentro di noi. Così come la sporcizia fuori è lui stesso. Pervade ogni cosa. Stiamo parlando in un certo modo, evidentemente, di dio. Di una proiezione distorta e ingannevole. Come le scimmie. Credo siano l’imitazione trionfante della vita. Sfacciate. Pulciose. Orgogliose di esserlo. C’è in effetti un mucchio di ciccia al fuoco.
Progetti per il futuro?
Tra pochi giorni andrà in scena un mio testo nuovo, “Jansi, la Janis sbagliata”. Un monologo quasi cantato su Janis Joplin. E dato che non sia mai che faccio qualcosa appetibile al pubblico, è senza neanche una canzone. In compenso è davvero una partitura per voce e basso. È praticamente un concerto. Un concept album di interiora di Jansi. Quando seguo le prove lo faccio ad occhi chiusi. Muovendomi come ballassi dentro. Meglio solo dentro che sono una frana. Mi preme per chiudere, dire che “Il pasto degli schiavi” è il primo numero di una collana teatrale della quale mi occupo come direttore artistico. “Scenamuta” edita da Edizioni Progetto Cultura. Sono già stati pubblicati talenti veri del teatro. Affermati e altri nascenti come Fabio Massimo Franceschelli con “Veronica”, Dario Aggioli con “Autore chi guarda” e Silvia Pietrovanni con “Bada-mi”.
Tre parole per definire “Il pasto degli Schiavi”?
Le scimmie scorrazzano.