Giulio Gasperini
AOSTA – L’ultima edizione è del 2002, per Mondadori. Ma le “Poesie” di Dario Bellezza mancano da troppo tempo dagli scaffali delle librerie. Una delle voci più potenti e spregiudicate della poesia italiana del Novecento, Bellezza ha sempre vissuto straziato dal conflitto tra la “vita tempesta” (e la sua declinazione dell’amore) e la morte, complice anche una malattia a cui lui si è condannato (Dario, “vittima e carnefice” di sé stesso) e che l’ha lentamente consumato nel suo “vecchio corpo rotto da malattie”.
Dario appartenne al genere degli uomini che vivevano di notte e che nella notte trovavano la loro unica missione e il loro unico compimento: “Ogni alba è una resurrezione, ritorno / alla pluralità, ma noi abitatori della notte / non arriveremo mai all’amore / della nostra decadenza!”. La solitudine è la condizione sostanziale che si materializza a ogni livello: “Addio. Tradiscimi con chi / ti pare”; persino a quello artistico (“Morta è la poesia”). La solitudine è, inoltre, la condizione che tesse la “pigra quotidianità”. La vita è tiranna, il vivere è il “suicidio più lento”; ma la vita non è altro che azione quotidiana dopo azione quotidiana, in un ritmo soffocante e asfissiante: “Abbracciato all’enigma / del futuro chiudendo in povertà i giorni / tutti uguali con il cuore a registrare / su un misero giaciglio in una casa / presa in affitto i puerili battiti / d’amore che mai più proveremo, così / sentimentali, così audaci nello sperpero / della pubblica energia”. È un concetto, questo, che in Bellezza si concreta ripetitivo e quasi ipnotico, straziante nella sua ineluttabilità: “Ma il quotidiano insiste […] / […] / Insiste così / il quotidiano […] / Insiste dunque il quotidiano […]”.
Ineluttabile e inappellabile è principalmente la morte: “Ché solo morte / esiste e a lei m’affido”. I rapporti di Bellezza sono sempre stati di intenso amore, nonostante la consapevolezza di essere un peccatore, perché “il giusto non aspetta certo / a Sodoma”. La sua fine tragica fu presentita: “Ascoltavo la morte nel mio sogno / […] / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / Alla finestra la luce della luna. E // nel mio cuore un presentimento”.
La vergogna più grande, pel poeta, è quella di non aver vissuto, di aver fatto trascorrere i giorni tra le dita, come sabbia di clessidra; adesso non rimane che stringere l’aria: “Una vita sprecata. La più pura di tutte / fu quella addormentata che non vissi / da vivo, ma ritornando a casa, già adulto / intravidi nello specchio di tutte le brame / […] / Fermati tempo, restituisci il passato!”. La confessione dell’uomo (prima ancora del poeta) è straziante, senza appello: “Ho paura. Paura di morire. […] / Devo prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore”. Ma è la morte che, segretamente, e paradossalmente, ha reso l’uomo un poeta: “Ora alla fine della tregua / tutto s’è adempiuto; […] / Così / senza speranza di sapere mai / cosa stato sarei più che poeta / se non m’avesse tanta morte / dentro occluso e divorato, da me / orrendo infernale commiato”.
Il tempo nemico che nulla restituisce.
Aggiungi ai preferiti : Permalink.
la poesia manca davvero molto dagli scaffali delle librerie, ma ancor di più, manca dal cuore degli uomini… la poesia è calore, amore, sentimento, angoscia, ma è specchio dell’animo del poeta e dell’uomo, dell’individuo, di cui il poeta si fa portavoce… straordinario il conflitto vita-morte declinato dal poeta…
E’ bello avere la possibilità di conoscere i grandi poeti e di farci riscaldare e nutrire dalle loro parole!