Veruska Armonioso
ROMA – “L’Unione Sovietica non è stata solo un Paese, è stata molto di più. E’ stata il più grande progetto utopico della modernità Un Paese in grado di meravigliarti, di affascinarti con un fascino che lascia tracce e ferite profonde.”
C.C.C.P. Сою́з Сове́тских Социалисти́ческих Респу́блик o in italiano U.R.S.S., Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche: un mondo scomparso. Un mondo che non esiste più, per il quale “Non ci sono più treni, né aerei, né strade […]”. “Come direbbe la prima intelighezia rivoluzionaria degli anni successivia al 1918, in URSS non era l’arte a imitare la vita, era la vita che doveva farsi arte. Lì abbiamo interpretato tutti la più grandiosa partitura politica del XX secolo, scandita da slanci eroici, sforzi disumani, tragedie sconvolgenti, vittorie e sconfitte sanguinose.” Quello che cerca di fare Ernu è creare “un’archelogia soggettiva, personale, che intende suggerire tracce, stati d’animo, modi di pensare e di parlare tipici di una cultura, infine shizzare un quadro della mentalità culturale sovietica.” In “Nato in Urss” Ernu ci fa vivere l’avventura sovietica declinata per i diversi scompartimenti del vivere quotidiano, a partire dalla scuola, per passare alla musica, al bere, al sesso, fino ad arrivare alla pubblicità, alla propaganda, alla politica, alle “regole” del vivere comune. Dedica, poi, un capitolo a parte a “l’avventura sovietica degli oggetti”, a seguito di una conversazione con la critica e storica Ekaterina Degot:
“L’uomo nuovo doveva relazionarsi in maniera diversa sia con il mondo, che con gli oggetti della vita quotidiana. Era giunta l’ora di fondare un nuovo sistema per la produzione degli oggetti, ma anche per il loro impiego. Il modello che ispirava il nuovo modo di agire era già noto “Colui che produce è padrone, colui che consuma è schiavo.” Era tempo di produrre oggetti che non avessero uno scopo e un valore commerciale, ma che raprresentassero i valori della classe operaia, del lavoro e della fratellanza umana.” A dare il via a questo movimento furono Rodčenko e Majakovskij… e con il nostro vecchio amico Vladimir non posso non pensare alla letteratura di quegli anni, che Ernu non approfondisce nel suo fantasmagorico viaggio nelle memorie, ma che noi faremo qui, in breve.
Le cose stavano così: in URSS, negli anni trenta, gli scrittori servivano per esaltare i meriti e le vittorie del regime e per essere di sostegno alla propaganda politica ufficiale. Il commissario politico Andrej Aleksandrovič Ždanov si occupava di coordinare l’Unione degli scrittori, la vita letteraria e di orientare i temi da trattare. Questa corrente si chiamava realismo socialista e non dava molto scampo, o facevi così, come dicevano loro, oppure andavi in esilio. Nei casi più estremi potevi anche essere incolpato di cospirazione e cadere vittima delle “purghe staliniane”, morendo in un campo di prigionia come Mandel’štam, o giustiziato come Gumilëv.
“Ma per tutto ciò che ho avuto e ancora voglio avere
per tutti i miei dolori, e le gioie, e le follie,
come tocca a ogni uomo pagherò
con la morte finale e irrevocabile”
(Nikolaj Stepanovič Gumilëv, Il tram smarrito)
In quegli anni ci furono moltissimi scrittori che si “dedicarono” al realismo socialista. Più o meno ci provarono tutti, eccetto alcuni. Gli “alcuni” sono quelli che scrissero la storia di questo mondo, che “si è fatta” non solo grazie alle restrizioni, ma anche (soprattutto) alle reazioni a quelle restrizioni. Una zip che, per salire su, ha bisogno di un doppio binario, a incastro, uno l’opposto dell’altro. Così, da una parte c’era il realismo socialista con uno strepitoso Gor’kij che passò tutta la sua vita a scrivere per la lotta contro la miseria, l’ignoranza e la tirannia e dall’altra loro, gli outsider, divisi in categorie, in rappresentanza delle quali, i membri a me più cari vi vengo a raccontare.
I Clandestini
Tutti i romanzieri che proseguirono in clandestinità la loro attività, senza uscire allo scoperto, senza pubblicare, per evitare censure o, nei casi peggiori, la morte. Tra loro il mio amore, Isaak Babel, che divenne scrittore proprio grazie all’incontro provvidenziale con Maksim Gor’kij, scrittore e drammaturgo russo considerato il padre della letteratura del realismo sovietico. Tra loro fu uno di quegli incontri che cambiano il corso della tua vita in modo ineludibile. Giornalista, traduttore, Babel vide l’inizio del compimento del suo ‘destino’ da clandestino quando pubblicò su LEF (“ЛЕФ”), la famosa rivista di Majakovskij, alcune pagine tratte dal suo romanzo “L’armata a cavallo” in cui descriveva con una brutalità feroce la guerra. Già quelle pagine vennero considerate “sovversive” dalle alte cariche, ma grazie all’intercessione dell’amico Gorky l’ordine fu ristabilito (ordine che durò ben poco). Nel 1930 venne a contatto con la crudeltà della collettivizzazione sovietica e con le sempre più incalzanti restrizioni del realismo sovietico staliniano, decise così di ritirarsi dalla vita pubblica. Venne accusato di essere un ‘esteta poco produttivo’ e lui si difese asserendo di essere semplicemente il maestro di un nuovo movimento letterario, il genere del silenzio.
“Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza
di un punto messo al posto giusto”.
Il suo punto fu messo il 17 marzo 1941, in un campo di prigionia a Butyrka dove era stato rinchiuso l’anno prima con l’accusa di spionaggio.
Autori nel Samizdat
Per Samizdat si intendeva la letteratura “edita in proprio” che si sviluppò tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, sviluppatasi in Unione Sovietica e nei paesi soggetti al suo controllo, per diffondere scritti illegali censurati dal regime. Il meccanismo consisteva nell’utilizzo della vecchia carta carbone per copiare gli scritti e nella loro distribuzione tra gli amici che, a loro volta, si occupavano, in caso di gradimento, della divulgazione degli scritti tra i loro amici e così via. Una sorta di multilevel, una diffusione a macchia d’olio che presto fu riconosciuta come tremendamente pericolosa e bloccata con una repressione fortissima sfociata in processi, carceri, ma anche internazioni in ospedali psichiatrici, chiusure nei lager, espulsioni dal paese, uccisioni.
“ E non aspettavamo una vittoria, non ci poteva essere la minima speranza di vittoria. Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: Io ho fatto tutto quello che ho potuto.”
(Vladimir Konstantinovič Bukovskij, Il vento va e poi ritorna)
OBERIU
“Chi siamo? E perché noi? Noi, oberiuti, siamo onesti lavoratori della nostra arte. Noi siamo i poeti di una nuova idea di mondo e di una nuova arte. Noi siamo i creatori non soltanto di una nuova lingua poetica, ma anche i fondatori di un nuovo modo di percepire la vita e i suoi oggetti. La nostra volontà di creare è universale: essa scavalca tutti i tipi di arte, irrompe nella vita, accerchiandola da ogni lato. E il mondo, sbavato dalle lingue di un gran numero di stupidi, invischiato nel fango delle “impressioni” e delle “emozioni”, ora rinasce in tutta la sua purezza delle sue concrete forme [artisitche]”.
(Oberiu, il manifesto)
Un collettivo anarchico, composto da artisti futuristi, soppresso con una velocità tale da non permettere agli scritti di emergere se non a trent’anni di distanza della sua nascita-morte e di avere un manifesto disponibile al mondo da pochi decenni e in italiano da pochissimi anni (disponibile in rete e di cui vi segnalo il link per visionare alcune pagine www.esamizdat.it/rivista/2007/1-2/pdf/temi_trad_manifesto_eS_2007_(V)_1-2.pdf)
Fondato nel 1928 da Daniil Kharms e Alexander Vvedensky, divenne un movimento famoso per le performance di forte impatto dei suoi artisti, in giro per i dormitori delle università e per le prigioni. Il suo declino, dopo il 1931 con le purghe staliniane, vide la fine dell’ultima avanguardia russa.
I suicidi
E infine loro, coloro che si tolsero la vita per non sottostare al realismo socialista.Troppo facile parlare di Vladimir Majakovskij, ancora. Allora lascerò rappresentare questa categoria a Marina Ivanovna Cvetaeva, che da Majakvskij imparò a fare poesia, ma da cui poi si distaccò per prendere la sua strada. Di lei, come di tutti gli artisti che si tolgono la vita, resta il mito di non aver accettato restrizioni e condizioni, quando costrizioni e restrizioni volevano dire rinunciare a sé, ai propri valori, alla propria identità alla propria arte. Di lei, come di tutte le persone che non hanno paura di morire per un ideale, rimangono delle memorie, più o meno conosciute, parole sbiadite, confronti con predecessori e successori, ma niente di più. Di lei, oggi, voglio farne una bandiera degli artisti sovietici morti per la patria. I fantasmi di un mondo che tra poche decine di anni sarà solo mito, eco lontana, suggestione. Di lei, le sue parole:
“Semplice e raffinata,
Un incanto sarai —
e straniera a tutti.
Un’ammaliante amazzone,
Un’impetuosa dama.
E porterai magari
Come un elmo i tuoi riccioli,
Regina del ballo —
E di tutti i giovani poemi.
Molti trafiggerà, regina,
Il tuo stocco beffardo,
E tutto ciò che io sogno
Tu l’avrai ai tuoi piedi.
Tutto ti obbedirà,
Davanti a te — tutti zitti.
Come me scriverai — questo è sicuro —
Versi anche più belli…
Ma chissà se dovrai
Stringer le tempie a morte,
Come in questo momentoLa tua giovane mamma.”
Che questo viaggio nei rintracciamenti di un passato recente, ma già sommerso, sia solo lo spunto per andare a grattare più a fondo. Per non dimenticare, per non disimparare, per non cancellare.
“Leggete, invidiate.
Io sono un cittadino dell’Unione Sovietica”Vladimir Majakovsij
ottima scelta,una realta di cui non è facile parlare in quanto ci si scontra con molti stereotipi o giudizi sommari. Basta vedere, a venti anni dalla caduta del muro di Berlino, il fenomeno della “Ostalgie”.