Giulio Gasperini
AOSTA – La morte si aggira sempre tra di noi. Riempie tutti gli spazi della nostra vita, persino quelli più quotidiani, meno solenni e ufficiali. La si trova sul divano, sulle scale, appoggiata agli stipiti delle porte; come un’ombra, saldamente cucita ai limiti del corpo. Le fotografie di Los respiros del Alma, di Donatella D’Angelo e Josè Lasheras, danno un concreto riferimento visivo al potere delle parole delle liriche della stessa Donatella D’Angelo, a comporre Memento vivere, edito da Edizioni del Foglio Clandestino nella collana Square 17.
La morte è l’indiscussa protagonista di questa collaborazione a quattro mani e due linguaggi, poesia e fotografia, attraverso un’esplosione di parole e di curve, di musicalità e spazialità che dà la dimensione plastica del confine (“cosa rimane / se non la linea tra inguine e cielo”); una morte, però, che non è “memento mori” ma, in realtà, si confonde con la vita per la portata delle sue conseguenze, dei suoi valori ultimi e più potenti. Una morte (e la vita, allacciata) che insegue nel tempo, che si infiltra e lo popola, lo spazientisce, lo depaupera e lo significa di nuovi significati, in un continuo allacciarsi e slacciarsi, in un eterno aggrapparsi e perdere appigli: la scrittura consente e arricchisce di maturare la giusta consapevolezza: “Libera la morte / allarga le braccia e / scrivi il giorno con le dita // lo senti come scivola?”.
In tutto questo pellegrinaggio, la consapevolezza feroce che la durata sia breve; anzi, brevissima, da trattenere con sforzi titanici: “Tra volte e ventricoli / di un tempo / trattenuto con le unghie”. Il dialogo serrato tra “io” e “tu” diventa un gioco di specchi che ci rimanda un’esistenza esemplare, nel senso medievale del termine, in cui ciascuno può cogliere brandelli di sé, della sua personale imperfetta prospettiva (“Tu muori, io vivo dentro / e nella bocca un vuoto d’aria”).
L’uomo è assurdo, nelle sue pretese, nelle sua manifestazioni egotiche di invincibilità, assumento Dio come termine ultimo di similitudine e paragone (“E noi ridiamo / credendoci immortali tra i mortali”): ma l’uomo è destinato a pagare un prezzo altissimo per la sua presunta impotenza fallace. Come arma, l’uomo ne avrebbe una sola, anche se estremamente compromettente da usare, se non impossibile: “Rimane il dubbio / a segnare l’aria tra le parentesi // gli occhi nudi e poco spazio / tra le pareti del cuore // siamo i nostri stessi miracoli”. Se non che, come un accidente improvviso, la fine – inevitabile – si palesa inizio di altro, in un costante ritorno che non conosce soste, né fallimenti, saldandosi come discorso ininterrotto con l’ipotetico che verrà: “Su di me il peso delle congiunzioni / […] // in ogni fine / sopravvive un inizio”. Questo destino – o magia del caso – è la consolazione forse più vera: “Perché il giorno esiste / nel profilo del giorno dopo”.
Memento vivere, l’alleanza tra vita e morte
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