Daniela Distefano
CATANIA – Assieme a George Washington e F.D. Roosvelt, Abraham Lincoln (1809-1865) è il più famoso presidente degli Stati Uniti, traduzione del sogno del self-made man: l’uomo nuovo che, come Ulisse nell’antro di Polifemo, è stato Nessuno per salvare ciò che era e che sarebbe diventato. Dopo mille vicissitudini – peripezie degne di un eroe inquieto ma non infuocato, dopo aver esplorato le foreste del West – è arrivato “al Campidoglio” salendo una scala predestinata che lo ha innalzato, gradino dopo gradino, dallo status di contadino a quello di Presidente.
Tiziano Bonazzi – professore emerito dell’Università di Bologna, già Ordinario di Storia e istituzioni dell’America del Nord – ripercorre, nel recente saggio Abraham Lincoln. Un dramma americano pubblicato dalla Società editrice Il Mulino, le tappe accidentate di un successo personale e collettivo: la Storia degli Stati Uniti vista dalla pietra angolare che ha contribuito alla sua gestaltung, alla sua costruzione.
Eletto nel 1860, Lincoln fu personaggio cruciale nel cast della sanguinosa guerra civile seguita alla secessione degli stati schiavisti. Rafforzò il potere federale, modernizzò l’economia e liberò quattro milioni di schiavi presenti nel Sud. Una sorta di Hitler al rovescio. Il Progressismo di Lincoln era aggrappato al principio universale della libertà.
Libertà come attività pratica, frutto della natura di homo faber degli esseri umani, per cui i neri hanno uguale diritto di godere liberamente del pane che hanno guadagnato con le loro mani.
E’ per questo loro “fare” che essi non sono “cavalli” e debbono essere liberi.
“Complicato e depresso cronico”, teologo dell’angoscia americana, il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti era assillato dal fallimento della edificazione nazionale. Ma l’esito di questi tormenti fu la vittoria, quella di “uno che cammina piano, ma non torna mai indietro” – come amava dire di se stesso.