ROMA – Ogni mese un’area della poesia, per conoscere i pensieri, i le parole e i poeti che hanno fatto il Novecento in Europa. Ogni mese un tema e un bouquet di voci, declinazioni e interpretazioni che hanno parlato di quei temi. Questo mese, come da “metrica dei giorni” la memoria.
La memoria
L’inconscio e il suo dinamismo, Bergson e l’ irrazionalismo da una parte e Freud con la psicanalisi dall’altra, in mezzo la memoria e la volontà, l’esperienza e la coscienza. Questo era lo scenario che si presentava nel Novecento, quando l’uomo, sebbene in possesso di un’identità stabile, trovava la sua definizione nella memoria. E così l’ inquietudine, lo smarrimento, e poi il dibattimento tra la negazione e l’evocazione della Memoria stessa. La poesia, nel Novecento, si fa baluardo di questa inquietudine esercitandosi sul terreno della memoria individuale, collettiva e storica, attraverso una lirica melanconica, lamentosa, che rimpiange un “tempo perduto” cercando di rintracciare nelle parole, immagini e mondi scomparsi.
“Quando il viaggio investe la ridefinizione del proprio vissuto, il mezzo ideale che ne consento lo svolgimento è la Memoria.” (Pegorari “Metrica dei Giorni”)
La memoria come nostalgia, di una terra lontana e amata, un tempo posseduta e non più goduta, come “Vento di Tindari” di Salvatore Quasimodo:
“Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Dell’isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.
Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima […]”
La relazione con la persona oggetto del ricordo si interrompe e la memoria costituisce il tramite per la conservazione del vincolo. Un vincolo che si vorrebbe sradicare, così come la presenza della persona dalla propria vita, e quindi lottare contro la propria memoria che ci rimanda, ineludibilmente, sempre le sue immagini:
“Perché tu non mi veda –
In vita – di spinosa invisibile
Siepe mi circondo.
Di rovi mi cingo,
in brina – scendo.
Perché tu non mi senta –
Di notte – nella senile scienza
Del riserbo mi cimento.
In mormorio – mi stringo,
di sussurri mi bendo.
Perché tu troppo non fiorisca
In me – tra libri: tra boscaglie –
Vivo – ti affondo.
Di fantasie ti cingo
Fantasma – ti sricordo.”
(Marina I. Cvetaeva “Perché tu non mi veda” tratta da “Dopo la Russia” (1928)
Oppure un vincolo che si vorrebbe mantenere, possedere di nuovo. E’ la speranza di un suo ritorno, in questo caso, ad affacciarsi, qui, con il tema dell’attesa, nutrita proprio dalla memoria, che si presenta grassa di tracce e di promesse speciali.
“<Ti perderò come si perde un giorno
Chiaro di festa: – io lo dicevo all’ombra
Ch’eri nel vano della stanza – attesa,
la mia memoria ti cercò negli anni
floridi un nome, una sembianza: pure,
dileguerai, e sarà sempre oblio
di noi nel mondo>.
Tu guardavi il giorno
Svanito nel crepuscolo, parlavo
Della pace infinita che sui fiumi
Stende la sera della campagna.”
(Alfonso Gatto “Parole” tratta da “Poesie”)
La memoria e il suo esercizio, per delineare le linee della propria coscienza e cercare un posto buono in cui stare. Ma per gli alcuni, come Caproni, Montale, è inutile nel suo fine di assegnare sapienza all’uomo, visto che il ricordo, comunque, non assolve al bisogno principale, quello del possesso. I luoghi e le cose che il soggetto ha vissuto e veduto, nonostante la memoria, restano non possedute, quindi inesistenti:
“Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.”
(Giorgio Caproni “Esperienza” tratta da “Il muro della terra” (1964-1975)
Infine, la memoria per ricordare, commemorare (cum memorare, ricordare insieme) il passaggio di qualcosa o di qualcuno che fece parte della nostra esperienza: Anna A. Achmatova, poetessa, madre e moglie, testimone e vittima del totalitarismo stalinista, non dimentica di aver avuto compagni di sofferenza, sebbene siano svaniti dalla memoria i loro nomi. Qui la memoria non si fa strumento di un dolore personale, ma del dolore storico e della lotta per la libertà:
“[…] Avrei voluto chiamare tutte per nome,
ma hanno portato via l’elenco, e non so come fare.
Per loro ho intessuto un’ampia coltre
Di povere parole, che ho inteso da loro.
Di loro mi rammento sempre e in ogni dove,
di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò,
e se mi chiuderanno la bocca tormentata
con cui grida un popolo di cento milioni,
che esse mi commemorino allo stesso modo
alla vigilia del mio giorno di suffragio.
E se un giorno in questo paese
Pensassero di erigermi un monumento,
Acconsento ad esser celebrata,
ma solo a condizione di non porlo
Né accanto al mare dov’io nacqui:
col mare l’ultimo legame è reciso,
Né nel giardino dello zar presso il desiato ceppo,
dove l’ombra sconsolata mi cerca,
ma qui, dove stetti per trecento ore
e dove non mi aprirono il chiavistello.
Per anche nella beata morte temo
Di dimenticare lo strepito delle nere “marusi”
Di dimenticare come sbatteva l’odiosa porta
E una vecchia ululava da bestia ferita. […]”
Chiudo questa piccola raccolta sulla memoria usando le parole di Auden tratte da Blues in memoria (Funeral Blues), musicata da Benjamin Britten per “The Ascent of F6”, uno dei tre lavori teatrali che Auden scrisse in collaborazione con Christopher Isherwood. Parole tristi e senza speranza, un’altra, alta, forma di commemorazione dove la poesia tocca le vette più elevate dello struggimento e, con lui, della bellezza semantica e semiotica. In doppia versione, per donare al lettore il prezioso originale di uno dei poeti più imperdibili dello scorso secolo.
BLUES IN MEMORIA
Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti e fra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.
Incrocino gli aeroplani lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui È Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano i guanti di tela nera.
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed il mio Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: avevo torto.
Non servono più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai nulla può giovare.
FUNERAL BLUES
Stop all the clocks, cut off the telephone,
Prevent the dog from barking with a juicy bone,
Silence the pianos and with muffled drum
Bring out the coffin, let the mourners come
Let aeroplanes circle moaning overhead
Scribbling on the sky the message He Is Dead,
Put crêpe bows round the white necks of the public doves,
Let the traffic policemen wear black cotton gloves.
He was my North, my South, my East and West,
My working week and my Sunday rest,
My noon, my midnight, my talk, my song;
I thought that love would last for ever: I was wrong.
The stars are not wanted now: put out every one;
Pack up the moon and dismantle the sun;
Pour away the ocean and sweep up the wood.
For nothing now can ever come to any good.