Giulio Gasperini
ROMA – “Il mondo offre una fonte inesauribile d’ispirazione”. La mistica del viaggiatore sta tutta in questa frase, in questo concetto semplice quanto disarmante, sorprendente. Come racconta Sébastien Jallande nella sua piccola guida “Il richiamo della strada” (edito in Italia da EdicicloEditore nel 2011) il viaggiatore comincia il suo viaggio ben prima di partire. L’attesa, la preparazione, l’edificazione stessa del viaggio rappresentano vere e proprie tappe fondanti, oltreché obbligate. Perché il viaggio è preparazione, è formazione, è crescita; il viaggio è “un atto filosofico”. “Partire impone una presa di coscienza”: il considerare, cioè, di dover mettere in discussione tutto, di noi. Ogni nostra singola scelta, la direzione che, di volta in volta, dobbiamo calibrare ed eventualmente cambiare, ci inducono a confrontarci prima di tutto con noi stessi, con le nostre attese e le nostre pretese, con le fragilità e i punti di forza. “La vita è altrove”, come scrisse Kundera, e come Jallande pone come epigrafe della sua mistica del viaggiatore.
Si parte per conquistare un qualche orizzonte, si parte per dare un nome ad altre terre (un nome che sia tutto nostro, intimo e privato), per nutrire la propria aspirazione all’ignoto. E prima di partire mettiamo in conto le distanze che dovremmo percorrere, quei sentieri che creeranno la nostra mappa personale. Le distanze però, nella nostra contemporaneità, sono da reinventare perché si sono compresse, in qualche caso annullate. Non ci sono effettivamente più nomi da inventare né terre da battezzare. Oramai il mondo è squadernato in cartine e planisferi, è sondato da radar e GPS, è monitorato da internet e motori di ricerca. Oggi, più che in passato, quando l’emozione del grido “Terra!” defibrillava i cuori e sbizzarriva le menti, il viaggio ha senso solo se ripiegato sulla personalità che lo compie. Sul soggetto che lo vive. Sicché la geografia più importante non è né quella fisica né, tantomeno quella economica o politica: la geografia più stimolante (e quella più valida su cui puntare) è quella intima perché “appropriarsi di un luogo sconosciuto è anche sviluppare una rete di legami”. Ecco allora che la geografia si accompagna alla sociabilità, è una “mistica dell’incontro”, e non se ne può separare, non si può scindere né prescindere. Noi siamo gli artefici del mondo, del suo sviluppo, delle sue derive e dei suoi approdi; noi, come scrive Jallande, partecipiamo alla “sedimentazione del mondo”. Ci sono particolari, dettagli, brividi sui quali gli atlanti non dicono niente, per i quali non informano.
Il “partire è anche confrontarsi con ciò che ci viene negato”: è un continuo mettersi in gioco e screditare le opinioni altrui, nell’unico tentativo di cercarsi le proprie. L’unico compimento del viaggio, l’unico modo per analizzarlo e farlo gemmare e fruttificare, è il suo racconto. Perché la narrazione aiuta noi stessi e gli altri: “Ogni racconto è un dono per la memoria degli uomini” scrive Jallande. “Raccontare il proprio viaggio è quindi una forma di terapia contemporanea”, risponde a “un desiderio imperioso di mettere ordine in sé”. E rimane l’unico modo affinché il viaggio continui oltre il rientro. E ne fiorisca il significato.
“Il richiamo della strada” e le nostre distanze compresse.
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Questo libro l’ho comprato al Salone internazione del libro di Torino di quest’anno per una persona molto speciale, che ama viaggiare… E leggendo questo articolo ho ritrovato proprio la stessa concezione che questa persona ha del viaggiare e che, proprio grazie alle parole usate nella recensione, sono riuscito a capire meglio… Il viaggiare fisico è bello, ma sicuramente molto molto più emozionante il proprio viaggio interiore e, aggiungerei, il viaggio intrapreso con le persone alle quali vogliamo bene, il viaggio con la propria dolce metà o con gli amici più cari ed intimi… La geografia delle cartine, della politica, dell’economia, non mi è mai piaciuta, ma la geografia interiore, emotiva, psicologica è molto molto interessante e bella da scoprire piano piano nel corso del nostro più grande viaggio chiamato esistenza…
Fortunato chi ha ricevuto in regalo codesto piccolo libro. Proprio così è, infatti: la geografia politica e fisica è sterile se non si capisce che la geografia definisce anche relazioni, incontri e tangenze. Ecco perché la geografia più bella è quella fatta con la storia, ovvero con le esperienze di vita di tutti, con le loro date, con i loro legami.
Viaggiare fisicamente è bello, divino. Ma viaggiare senza la consapevolezza di quel che si sta facendo è un inutile spreco, e un’opportunità persa.
Emily Dickinson aveva ragione:
“Non esiste un vascello veloce come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesie che si impenna
questa traversata
può farla anche il povero
senza oppressione di pedaggio
tanto è frugale
il carro dell’anima.”
Bei concetti, che si possono applicare anche ai viaggi in senso lato, ovvero a qualsiasi percorso di cambiamento che abbia una meta